#romanzi sul coraggio.
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Non ho paura del buio di Robert Dugoni: un thriller emotivo e coinvolgente. Recensione di Alessandria today
Un’indagine tra segreti familiari e giustizia personale che tiene il lettore incollato fino all’ultima pagina.
Un’indagine tra segreti familiari e giustizia personale che tiene il lettore incollato fino all’ultima pagina. Recensione dettagliata Non ho paura del buio, primo volume della serie Tracy Crosswhite, è un avvincente thriller psicologico scritto da Robert Dugoni. Al centro della storia troviamo Tracy, detective della Squadra Omicidi di Seattle, tormentata da un passato doloroso: la scomparsa e…
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Ed eccoci di nuovo qui con la rubrica a cadenza mensile e precisamente l'ultimo giorno di ogni mese, curata dalla nostra utente e amica Valentina Pace
Questa rubrica nasce anche e soprattutto da una riflessione che ci accompagna da un po' di tempo: per una "piccola" biblioteca di un piccolo paese non è sempre facile stare al passo con le richieste, i suggerimenti, le necessità degli utenti e non. Per questo motivo, con l'aiuto di Valentina scopriremo nuovi autori e nuove letture, consigli e spunti di riflessione, insieme a curiosità e notizie sui nostri cari libri. E allora, diamo il benvenuto a questo nuovo spazio culturale dove si viaggerà alla scoperta delle case editrici indipendenti: ʟᴇᴛᴛᴜʀᴇɪɴᴅɪᴇ.
La casa editrice di questo mese è: marcos y marcos
Buona lettura a tutti!
𝕋𝕌𝕋𝕋𝕆 ℚ𝕌𝔼𝕊𝕋𝕆 𝔽𝕌𝕆ℂ𝕆 – 𝔸𝕟𝕘𝕖𝕝𝕖𝕤 ℂ𝕒𝕤𝕠
«Pochi cuori mortali / soffrono in terra come il tuo.»
(Emily Brontë)
Quello delle sorelle Brontë è un caso forse unico nel panorama letterario mondiale. Charlotte, Emily e Anne, tre donne unite da un fortissimo legame di sangue, tutte e tre poetesse e scrittrici, vissute in simbiosi e morte giovanissime, autrici di alcuni tra i più famosi classici della letteratura ottocentesca, sono le protagoniste indiscusse di “Tutto questo fuoco”.
Si tratta di un romanzo in cui Angeles Caso, con amore, ammirazione ed estremo rispetto, racconta la vita familiare delle tre sorelle, ponendo l’accento sul fuoco divorante della creazione letteraria che le ha portate alla fama imperitura.
L’autrice inizia dalla loro infanzia sfortunata: rimaste orfane di madre in giovanissima età, sono state allevate dalla severa quanto amorevole zia Elizabeth e dal padre, il reverendo Patrick Brontë.
Charlotte, la più ambiziosa e determinata, è quella che insegue la fama: vuole che il talento suo e delle sorelle sia noto a tutti.
Emily, la grande poetessa, è timida e riservata al punto da rasentare la maleducazione, ma ha uno spirito indomito e appassionato, e una pienezza emotiva che la spingono a comporre versi di una bellezza incommensurabile. Niente al mondo potrebbe portarla lontano da Haworth e dalla sua amata brughiera. Inoltre, non condivide assolutamente il desiderio di Charlotte di pubblicare i loro scritti.
Anne, la più giovane, dolce e remissiva, desidera soltanto restare a casa con le sorelle piuttosto che lavorare come istitutrice e farsi maltrattare da ragazzini ricchi, ignoranti e viziati.
La Caso racconta gli amori impossibili o sfortunati delle tre giovani donne, il rapporto difficilissimo con il fratello Branwell, ma, soprattutto, permette al lettore di entrare nella canonica di Haworth quando Charlotte, Emily ed Anne, dopo aver terminato tutte le faccende domestiche, possono finalmente riunirsi in salotto, tirare fuori i loro scrittoi, affilare le penne e comporre i loro capolavori.
COSA MI È PIACIUTO
Sono una grande appassionata dei romanzi delle sorelle Brontë e mi sono sempre chiesta come tre giovani donne, cresciute in una canonica in mezzo alla brughiera, in piena età vittoriana, potessero creare dei personaggi complessi e indimenticabili come Jane Eyre, Edward Rochester, Cathy e Heathcliff: finalmente ho trovato la risposta.
COSA NON MI È PIACIUTO
Come sempre quando un libro mi piace enormemente, mi trovo in difficoltà a evidenziarne gli aspetti negativi. Sinceramente, in questo caso, non ne ho trovato nessuno.
L’AUTRICE
Angeles Caso nasce a Gijón nel 1959, figlia di un filologo che dava la buonanotte ai figli con le ballate del Cinquecento. Dopo aver studiato arte e storia moderna, per due anni è il volto di un telegiornale spagnolo, ma non si sente a casa. Torna a dedicarsi alla letteratura a tempo pieno. Alterna il romanzo storico alla fiction, e al centro della sua attenzione c’è sempre il coraggio delle donne. “Controvento”, che racconta la vera storia della sua baby-sitter di Capo Verde, le è valso il premio Planeta. “Tutto questo fuoco” è un omaggio amorevole alla passione inarrestabile delle sorelle Brontë.
LA CASA EDITRICE
Marcos y Marcos più che una casa editrice, in principio era una mansarda a Milano dove Marco Franza e Marco Zapparoli, poco più che ventenni, inventavano, assemblavano e spedivano nel mondo edizioni numerate dai caratteri splendidi e la carta fabbricata a mano. Spesso quei fascicoli esili erano accompagnati da stampe d’artista o riproduzioni di manoscritti originali. Gli autori? Da Mario Luzi a Novalis, da Leonardo da Vinci a Heinrich von Kleist. Il mestiere si imparava strada facendo. Ai tempi, si vendevano meno libri di oggi e la concorrenza era esigua. C’era più tempo per sperimentare e anche per sbagliare. I librini di trenta pagine in un decennio si sono trasformati in una collana “di culto”. Sempre con un occhio ai classici, certo, magari non più così indietro nel tempo.
#bibliosanvale#bibliotecasanvalentino#bibliosanvalentino#libri#bibliotecacomunale#biblioteca#consiglibibliotecari#consigliletterari#romanzo#casaeditriceindipendente
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Vedi, Eszter, ritrovarsi a distanza di tempo è quasi più misterioso ed eccitante di quanto non lo sia ritrovarsi per la prima volta…Questo lo so da parecchio. Rivedere una persona che abbiamo amato non è forse un po’ come tornare sul luogo del delitto, spinti da una necessità irresistibile, come si dice nei romanzi polizieschi?...Ho amato solo te nella mia vita, senza troppe esigenze e in modo abbastanza incoerente, sì, lo so…(…) Eri tu che non volevi veramente questo amore. Non protestare. Non basta amare qualcuno. Bisogna amare con coraggio. Bisogna amare in modo tale che nulla, né ladri né influenze esterne né leggi umane o divine, possano interferire con questo sentimento. Noi due non ci siamo amati con coraggio…Ecco qual è stato il guaio. Ed è colpa tua, perché il coraggio degli uomini in amore è una cosa ridicola. L’amore è compito vostro. Voialtre siete grandi solo in questo. E’ qui che hai fallito, e insieme a te è naufragato tutto ciò che avrei potuto realizzare: doveri, compiti, il contenuto di una vita intera. Non è vero che gli uomini sono responsabili dei loro amori. Siete voi a dover amare eroicamente. Ma tu hai commesso la cosa peggiore che possa capitare a una donna: ti sei offesa, sei fuggita. Vuoi credermi finalmente?
— Sándor Márai, libro L'eredità di Eszter
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Se c’è un modo sbagliato, oggi più di ieri, d’impostare il dibattito sul romanzo, è quello di chi parte dalla dicotomia tra “scrivere bene” e “scrivere male”. Non perché i romanzi, e la letteratura, non siano fatti di scrittura, ma perché la loro sostanza si avvicina solo asintoticamente al corpo del testo; e appena proviamo a trasformare l’asintoto in una coincidenza, per dirla con Edward Morgan Forster, ci resta in mano solo un mazzetto avvizzito di parole. Il romanzo forse più notevole e più libero del Novecento italiano, “La coscienza di Zeno”, è scritto molto male, o addirittura – se lo “scriver male” vogliamo assegnarlo al Pirandello del pur superbo “Mattia Pascal” – è “non scritto”, come diceva Luigi Baldacci. Il fatto è che lo stile non è una tecnica, ma è proustianamente “qualità della visione”. Il best seller della Ferrante non è per nulla tecnicamente “mal scritto”, e chi ha provato a dimostrarlo ha scelto un bersaglio falso; semmai, la sua mediocrità sta nell’enorme percentuale di déjà-vu, in quella visione del mondo da abile fiction già televisiva. Quando si hanno in testa degli stereotipi, non importa se di un naif di primo grado o di un naif accademico, nessuna “bella scrittura” sarà bella: sarà invece o una scrittura anonima da laboratorio editoriale o una tipica “belluria”, ovvero uno dei tanti dannunzianesimi che non osano dire o semplicemente non conoscono più il proprio nome. Nemmeno la questione del tema di un testo letterario è così facilmente liquidabile come vuol far credere la finta raffinatezza – cioè la vera volgarità – da scuola di scrittura: Fortini ricordava che esiste pure il problema goethiano del “buon soggetto”. Che però, sia chiaro, non è affatto il soggetto promosso, con tartufesca contraddizione, dalle medesime scuole di scrittura in cerca di agganci pubblicitari, e quindi sempre pronte a spingere sull’attualità giornalistica. Ma non voglio fare di questi laboratori un capro espiatorio, anche perché non sono poi diversi dalle aule universitarie e dalle sale-riunioni degli editor. La fusione, anzi, è ormai avvenuta. E spesso i tipi che davanti a un passato già avvolto nelle rassicuranti carte bibliografiche riconoscono, o meglio accettano, l'autentica grandezza anche in una storia di seduzione tra ragazzini delle campagne senesi, sono poi gli stessi che davanti al presente, per la paura di perdere il treno, si occupano solo di ciò che si vede e si sente fin troppo bene a causa del ruggito mediatico: pensate ad esempio ai luperiniani, che studiano studiano studiano Federigo Tozzi (i bravi gli hanno detto che è bravo, per fortuna), ma che appena si trovano davanti alle novità librarie s’innamorano subito degli eredi di Virgilio Brocchi (vedi Saviano). Non lasciatevi ingannare e intimidire dai finti sommelier, dai finti sperimentali, e neanche da chi vi vuole ricattare con il finto coraggio di una "sincerità" aprioristicamente autoassolutoria, girardianamente romantica e non romanzesca ("sì, vedete quanto ho peccato, ma quanto in fondo sono umano"). Preparatelo per conto vostro, il vostro prossimo errore.
Matteo Marchesini
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I miserabili
Contesto
Il romanzo viene pubblicato per la prima volta in Belgio, dove Hugo si trova in esilio.
Il libro ha luogo nell’arco dei 17 anni tra il 1815 e il 1832. Giugno del 1815 vede sconfitto Napoleone nella battaglia di Waterloo,
Nel giugno del 1815 era anche appena concluso il Congresso di Vienna, iniziato nell’autunno precedente. La conferenza, a cui parteciparono le principali potenze europee, aveva come obiettivo quello di ripristinare in Europa il governo dei sovrani assoluti dopo gli eventi della Rivoluzione francese e delle guerre napoleoniche.
Nel giugno del 1832 ci fu la fallita rivolta anti-monarchica per rovesciare il governo di Luigi Filippo di Orléans. Il suo regno viene chiamato Monarchia di Luglio in quanto lui era salito al trono dopo la Rivoluzione di Luglio, soprannominata anche “Seconda Rivoluzione Francese”, avvenuta tra il 27 e il 29 luglio e che aveva rovesciato il regno dell’ultimo sovrano Borbone di Francia, Carlo X. Il 1832 è anche l’anno in cui, finalmente, la pandemia di colera che era scoppiata in India nel 1815 raggiunse Parigi e tra i mesi di marzo e settembre uccise 18.000 persone.
Il romanticismo nella letteratura
Movimento letterario, artistico, culturale nato in Germania alla fine del 1700 che ha dominato l’Europa fino alla prima metà dell’Ottocento. Alcuni dei suoi temi sono eredità del movimento preromantico dello Sturm und Drang. Il termine “romantico” proviene dall’inglese “romantic” ovvero non reale, fittizio, immaginario. Questa parola nella metà del XVIII secolo indicava quei generi letterari, come i romanzi cavallereschi, che rappresentavano vicende fantastiche all'interno di un'ambientazione storica più o meno accurata. Questo movimento di contrappone all’Illuminismo del secolo precedente, alle sue idee di intelletto, di relazione con il mondo, e di concezione della natura. Rispetto ai philosophes illuministi, che ammettevano e accettavano l’impossibilità di raggiungere l’infinito e Dio a causa dei limiti della Ragione, e si interrogavano invece sul fine della natura, il Romanticismo rinnega una visuale teleologica del mondo. Per gli Illuministi la natura era osservata e catalogata, per i Romantici la natura è profonda e segreta. La ragione per i romantici è guidata dal sentimento. Senza il sentimento la ragione non potrebbe superare i limiti umani. Nel Romanticismo un elemento essenziale è l’INFINITO e l’anelito verso l’ASSOLUTO, la costante ricerca. Questa ricerca si traduce sia in termini spaziali che temporali. Spazialmente, i luoghi esotici e lontani offrono una fuga dalla realtà e temporalmente lo sguardo si rivolge verso epoche diverse passate, come il Medioevo e l’epoca classica antica. In questo sguardo verso il passato la STORIA non è mai intesa come storia del singolo individuo e nemmeno come della singola civiltà ma 1) come sguardo verso il passato e ricerca di un’ARMONIA perduta in tempi antichi e tutti quei valori che ora sono importanti come la fedeltà, la lealtà, il coraggio e 2) come storia universale, storia come manifestazione del progetto/disegno di una Provvidenza. La storia secondo i Romantici non è un susseguirsi di eventi concatenati e di cause e effetti, ma è una "macro manifestazione universale e sovraindividuale di una soggettività astratta”. Importante è anche l’AMORE, in quanto slancio verso l’assoluto che porta alla globalità. Dal punto di vista politico il Romanticismo è duale. Al contempo esistono i Romantici che esaltano la patria e la amano, che sono legati al concetto di popolo e di giustizia e libertà, e sognano un’autonomia nazionale mentre prendono parte ai vari moti rivoluzionari del diciannovesimo secolo e quei Romantici che, invece, vogliono conservare i legami storici con la patria del passato e la tradizione. Il Romanticismo politico stimola una coscienza nazionale che si incastona perfettamente tra le idee di Restaurazione e di Risorgimento.
Personaggi
Jean Valjean protagonista del romanzo, tanto che all’inizio il libro si sarebbe dovuto chiamare “Il miserabile”. In giovane età viene arrestato e incarcerato perché ha rubato del pane da dare alla famiglia di sua sorella. Tenta qualche evasione, la pena arriva a 19 anni. Esce ma è marchiato a vita; torna a delinquere. Conosce Monsieur Bienvenu che gli cambia la vita e si redime. E’ dotato di forza fisica quasi sovrumana, come Quasimodo de Notre Dame de Paris. E’ il centro del romanzo, sicuramente il personaggio più importante attorno a cui gira l’intero libro. Vive più vite lungo tutto il romanzo in modo da riflettere i cambiamenti dell’animo umano tormentato da ciò che gli accade, da ciò che sente di essere, dalle cose che scopre vivendo.
Fantine La incontriamo abbastanza presto nel libro. Si innamora di un ragazzo di un altro ceto sociale, rimane incinta e da lì iniziano i suoi problemi. La sua parabola dura poco ma rimane sempre impressa nel lettore anche perché sua figlia è Euphrasie “Cosette”, altra protagonista del romanzo. È bellissima, ingenua. La sua storia è una delle più struggenti. Perde la sua purezza e la sua morte riflette la sua “discesa” morale (titolo del quinto libro della prima parte).
Cosette Figlia di Fantine. La vediamo letteralmente nascere, crescere, maturare e diventare adulta. Anche lei vive sostanzialmente tre vite: dai Thénardier, con Jean e con Marius. Non ha un carattere definito e per tutto il libro Hugo la descrive invece di farla “vivere”, se non alla fine, dove prende vita davvero. È un personaggio “ideale” e angelicato.
Marius Giovanotto cresciuto dal nonno monarchico. Si ribella, conosce gli amici dell’ABC e vive per conto suo. Diventato “rivoluzionario”, conosce Cosette e se ne innamora. Anche lui è un personaggio abbastanza strano; sembra che Hugo non ce l’abbia bene in mente. Lo descrive molto ed è evidente che ci tiene a farne un personaggio di peso, eppure non gli riesce del tutto. Anche lui prende vita, peso e spessore soprattutto alla fine.
Javert Figlio di delinquenti, è un ispettore della polizia incredibilmente fedele all’idea di giustizia intesa in senso legislativo. È retto, probo, severo. È un personaggio “cinematografico”, di grande spessore e con un filo narrativo interessantissimo. Uno dei personaggi meglio scritti. La sua intera filosofia ed esistenza giusta vengono messe alla prova da Jean Valjean (il culmine di uno scontro lungo praticamente l’intero libro) e questo non lo porta ad una “conversione” ma alla sua fine.
Thénardier padre Ex locandiere caduto in miseria a causa dei debiti. Prima cresce Cosette mandando in rovina Fantine, poi si barcamena sfruttando i figli per le truffe. È un uomo scaltro ma infido, pronto a fregare il prossimo per sopravvivere. È in effetti “il cattivo” del romanzo. Personaggio molto riuscito.
Éponine Primogenita dei Thénardier, uno dei migliori personaggi del libro. È una ragazza vispa, estroversa, carismatica, intraprendente. Hugo la fa parlare e agire moltissimo, è da subito un personaggio molto vivo, credibile, che fa appassionare e empatizzare. Condannata a non poter scappare dalla sua situazione, muore per amore. Ha una gran storia e i pezzi dove c’è lei sono sempre appassionanti.
Gavroche Terzogenito e primo maschio dei Thénardier, è un “monello” che vive per strada. Anche lui è un personaggio vivissimo, sagace, ironico, intraprendente, anche coraggioso e buono (salva due bambini di strada condividendo il suo riparo e del cibo). Parla moltissimo, ha una voce chiara e precisa. Personaggio estremamente intrigante. Anche lui è un personaggio giusto, segue i rivoluzionari perché è la cosa da fare.
Gli amici dell’ABC 8-9 ragazzi che incontriamo a metà libro e che parteciperanno ai moti di Parigi del 1832. I più significativi, secondo me, sono: Enjolras, leader del gruppo e della barricata; è un simbolo dei moti della rivoluzione, è anche lui “angelicato”, ideale, perfetto esemplare di uomo di principio. Courfeyrac, amico di Marius sagace e con la battuta pronta, fin da subito ha un’ottima caratterizzazione. Grantaire, ubriacone senza particolari ambizioni, credenze o ideali, che idolatra Enjolras, ha un buon arco narrativo.
Monsieur Bienvenu Il primo personaggio in assoluto che incontriamo. Scompare presto dalla trama ma rimane fino all’ultima pagina come simbolo portatore di ideali cristiani e guida morale di Jean Valjean.
Spunti
Personaggi-simbolo e personaggi veri Simboli: Fantine, Cosette, Marius, Enjolras Veri: Jean Valjean, Eponine, Javert, Gavroche, Thénardier Hugo ritrae i personaggi in due modi distinti: i personaggi veri e i personaggi simbolo. I personaggi simbolo sono utilizzati da Hugo per rappresentare un ideale.L’esempio più immediato è Enjolras che incarna la giustizia e la rivoluzione: il suo personaggio non fa né è nient’altro che ciò che rappresenta. Un altro esempio riguarda Cosette che per tutto il libro non ha una sua propria voce, non viene mostrata fare qualcosa di specifico, non prende decisioni, insomma non è davvero nel mondo; Cosette rappresenta la donna vergine e angelicata. Altri due personaggi che, secondo me, sono più ideali che personaggi vivi, sono Fantine e Marius. Riguardo Marius addirittura Hugo si dilunga in almeno 3 parti diverse del libro nel descriverlo astrattamente, da fuori, con un diluvio di aggettivi. Ecco un esempio:” Del resto, era un ragazzo ardente e freddo, nobile, generoso, fiero, religioso, esaltato; dignitoso fino alla durezza, puro fino alla selvatichezza”. Una sfilza di aggettivi che dicono e non mostrano. Questi personaggi sono meno veri e umani, ci si può rispecchiare molto poco, anzi non hanno vere caratteristiche umane, proprio perché, essendo “ideali”, sono un connubio precisissimo e irrealistico di caratteristiche generali: “la rivoluzione, “la verginità angelicata”, i due esempi migliori sono proprio questi. Gli altri personaggi, quelli veri, hanno una loro voce, fanno cose, Hugo li mostra; al contrario degli altri, loro sono vividi, possiamo capirli molto di più. Alcuni di questi personaggi veri e vivi sono: Jean Valjean, Eponine, Javert, Gavroche, Thénardier. Spiccano in particolare Eponine e Gavroche che non vengono praticamente mai presentati né descritti, eppure sono vividi, personaggi tridimensionali e realistici. Un esempio riguardo Gavroche. La prima cosa in assoluto che dice è: p 763 “Toh, è la vecchia, -disse il bambino.- Salve, Sguscialumache. Sono venuto a trovare i miei antenati”
Religione classica Idea del raggiungimento del Paradiso solo dopo grandi sofferenze e dopo una vita intera di moralità I miserabili non hanno un biglietto gratis per il paradiso solo perché soffrono.
Tipo di scrittura di Hugo - Fluviale Hugo è stato uno scrittore molto prolisso, fluviale, esagerato: ha portato all’estremo una tendenza del romanticismo dell’800. Ne I miserabili c’è tutto l’Hugo ossessionato dall’esprimersi, anche ripetendosi più volte. Un esempio chiarissimo lo si ha nel primo libro della parte quinta, l’ultima. E’ il famoso pezzo in cui sono le barricate. Queste barricate vengono descritte più volte di fila in una pagina e mezza densa di ripetizioni. Un altro esempio di “fluvialità” sta nelle digressioni: le digressioni in quanto tali sono parte dei grandi romanzi classici, non sono un difetto. Hugo porta all’estremo il concetto della digressione con interi capitoli laterali: uno sulla battaglia di Waterloo, uno sul sistema dei conventi, uno sulle fogne, ad esempio. Sono concettualmente “giusti”, secondo me; però sono molto lunghi, prolissi, ripetitivi. Si perde in moltissimi minuscoli dettagli. Hugo aveva la chiara scelta di dire le stesse cose in metà delle pagine o dire tutto ciò che voleva senza contenersi né rinunciare a qualcosa, ha scelto la seconda. Questo stile è anche, in parte, una non-scelta di Hugo perché lui di suo è uno scrittore portato all’esagerazione, alla prolissità.
Tipo di scrittura di Hugo - Ha dei pattern (il “doppio”, il “si chiama”). Ho notato un modo molto peculiare di articolare alcune frasi, soprattutto quando Hugo non sta raccontando un’azione ma sta riflettendo oppure sta presentando delle situazioni o dei personaggi. Non so come definirlo quindi lo chiamo “il doppio”. Non so bene neanche come descriverlo: è un modo per associare le cose sempre a coppie, presentarne una vuol dire portarne sempre una d’accompagnamento. Alcuni esempi: “Aveva un pungolo? sì, certo, la sua miseria; aveva le ali sì, certo, la sua gioia.” “La cucina degenerò e diventò pessima, il vino, che era sempre stato cattivo, diventò orribile” “la guerra contro la frazione è insurrezione, l’attacco della frazione contro la totalità è sommossa” “c’è una sete sola, la pace, un’ambizione sola, essere piccoli” “Wellington era il Barème della guerra, Napoleone ne era il Michelangelo” “Esiste uno spettacolo più grande del mare, è il cielo; esiste uno spettacolo più grande del cielo, è l’interno dell’anima” “Il progresso è lo scopo; l’ideale è il tipo.”
Tipo di scrittura di Hugo - Si chiama. Hugo pur di usare qualche parola in più ha il vizio, l’ossessione, di usare il “si chiama” invece di dire quel che deve dire. Esempi: “il bambino che si chiamava Marius, sapeva di avere un padre, ma nulla di più” “Abbiamo domato l’idea, e si chiama steamer; abbiamo domato il drago, e si chiama locomotiva; stiamo per domare il grifone, già lo teniamo, e si chiama pallone” “Questa sovranità dell’io sull’io si chiama libertà” “Questa identità di concessione fatta da ciascuno a tutti si chiama Uguaglianza” “Questa protezione di tutti su ciascuno si chiama Fratellanza” “Nell'uscire da quella cosa deforme e nera chiamata galera…” Fa parte dello stile di Hugo, non credo si possa definire errore vero e proprio, è solo un modo banale e impreciso per allungare il brodo. Se nei primi capitoli non si notava neanche, alla lunga mi ha stancato.
Tipo di scrittura di Hugo - Hugo ha uno stile di scrittura che riflette, in parte, il suo tempo e il suo carattere. In alcune parti di romanzo, la sua scrittura diventa molto paternalista e forse anche didascalica e retorica. L’esempio perfetto è la domanda retorica, vuota per definizione, eppure usatissima da Hugo. “Ma di che parlavano allora, quegli amanti?” “Dove siamo in questo momento? Nel gergo. Che cos’è il gergo?” “Che cosa accadeva in quella mente tanto giovane e già tanto impenetrabile? Che cosa vi stava compiendo? Che cosa succedeva all’anima di Cosette?” “Il monello è una grazia per la nazione, e nello stesso tempo è una malattia; malattia che deve guarire; come? con la luce.” “Il progresso è lo scopo; l’ideale è il tipo. Che cos’è l’ideale? è dio.” “Che era mai? Era un luogo abitato dove non c’era nessuno.” “Era possibile che Napoleone vincesse quella battaglia? Rispondiamo di no. Perché? […] A causa di Dio.” ““Che cos’è questa storia di Fantine? È la società che compra una schiava.” E’ uno stile che ho trovato, con l’andare della lettura, sempre più pesante e posticcio. Rallenta la lettura, la rende arzigogolata e inutilmente autoriferita.
Tipo di scrittura di Hugo - Cambia stile e portata a seconda dei momenti fino a diventare frenetica e potentissima. Come i grandi autori, Hugo ha un’ottima padronanza del ritmo. Ci sono alcuni momenti in cui questa gestione è magistrale. Ad esempio, nella prima parte, c’è una scena di profonda introspezione da parte di Valjean che deve decidersi a consegnarsi alle autorità; la scrittura è lenta, filosofica, psicologica, immaginifica. Poco dopo parte l’azione, la corsa disperata di Valjean e il suo ritorno e il devastante momento di Fantine; la scrittura si fa più secca, precisa, legata agli eventi, frenetica.
Tipo di scrittura di Hugo - Cinematografica. Hugo ha uno stile tale per cui alcune scene sembrano perfette per il cinema, per un adrenalinico film d’azione tipo 007. Javert è, in questo senso, il personaggio più cinematrografico. Ha battute ed entrate in scena ad effetto. “Volete il mio cappello? - gridò una voce dalla soglia della porta. Si voltarono tutti. Era Javert. Teneva il cappello in mano e lo porgeva sorridendo”
Tipo di scrittura di Hugo - Digressioni Niente di nuovo: Hugo fa tante digressioni lungo tutto il libro. Alcune digressioni sono utili per presentare nuovi personaggi, come quella adatta a farci conoscere Fantine. Altre sono storiche, come quella che racconta la battaglia di Waterloo. Altre specifiche per il tempo e il luogo in cui è stato scritto il libro, come una piccola digressione sui “personaggi famosi” della Parigi dell’800. Poi ci sono digressioni più estreme, come quella in cui spiega nel dettaglio il sistema fognario di Parigi.
Finale Come per Notre Dame de Paris, il finale è costruito fin dai capitoli precedenti con molta cura. Hugo si prende oltre 100 pagine e moltissimi capitoli per costruire un finale emozionante in cui riesce a fare il punto e a concludere le storie dei personaggi principali alla perfezione.
Voce di Hugo Ci sono libri in cui l’autore è onnisciente ma invisibile, non lo si percepisce mai, né platealmente (non si tira mai in causa direttamente) né implicitamente. Invece ne I miserabili la voce dell’autore è molto forte, soprattutto quando Hugo si prende del tempo per analizzare dei concetti - ad esempio nelle digressioni. A un certo punto Hugo addirittura sente l’esigenza di spiegare cos’è I miserabili e cosa il lettore dovrebbe vederci dentro: “Il libro che il lettore ha sotto gli occhi in questo momento è, da un capo all’altro, nell’insieme e nei particolari, quali che siano le intermittenze, le eccezioni e le mancanze, il cammino dal male al bene, dall’ingiusto al giusto, dal falso al vero, dal buio alla luce, dall’appetito alla coscienza, dalla putredine alla vita, dalla bestialità al dovere, dall’inferno al cielo, dal nulla a Dio. Punto di partenza: la materia, punto d’arrivo: l’anima. Idra da principio, angelo della fine”. E’ una posizione molto forte e discutibile: d’altronde si potrebbe dire che l’autore non è responsabile di ciò che il lettore ne fa del romanzo. Eppure Hugo, esagerato com’è, vuol mettere mano anche su questo. Parte della voce di Hugo è anche sgradevole e maschilista, in parte perché Hugo è “figlio del suo tempo”, in parte, probabilmente, per la sua persona. Un esempio che mi ha lasciato interdetto: “Abbiamo accennato una volta per tutte al balbettio della Toussaint. Ci si consenta di non accentuarlo più. La notazione musicale di un’infermità ci ripugna”
Amici dell’ABC All’inizio presentati con mere descrizioni che rimangono sospese e poco chiare. Prendono vita nella barricata. Avrebbe potuto usarli molto di più, comunque ottimo impatto di Enjolras, Courfeyrac e Grantaire. Gli amici dell’ABC sono 8-9 ragazzi che parteciperanno alle barricate. Li conosciamo di sfuggita contemporaneamente alla storia di Marius. Hugo fa una scelta precisa che io reputo discutibile: li descrive. Tutti. Di fila. Circa 5-6 pagine di mere descrizioni. Se per un Enjolras potrebbe bastare, dato che è un personaggio simbolo (vedasi sopra), per tutti gli altri è semplicemente un muro di testo che non lascia nulla. Non li conosciamo davvero. Iniziamo a conoscerli quando prendono parola. Courtfeyrac è amico di Marius e ha qualche battuta: poche frasi bastano per caratterizzarlo molto di più di mezza pagina di descrizione. Prendono tutti vita parecchie pagine dopo con l’evento della barricata. E’ un’occasione sprecata, secondo me, perché sarebbero stati interessantissimi.
Lunghezza libro Sarebbe potuto durare 1000 pagine in più, c’era ancora sugo, potenzialmente. Non è un peso, anzi, ci permette letteralmente di accompagnare alcuni personaggi dalla nascita. Credo sia tipica dei romanzi d’appendice: hanno tanta trama, tanti personaggi, tanti ambienti. Potenzialmente non hanno una fine specifica. La storia sarebbe potuta continuare con Marius e Cosette che diventano adulti, magari fanno un figlio. Thénardier fa cose. Azelma, la figlia di Thénardier e sorella di Eponine, ha tutto lo spazio del mondo.
Questione carceraria "Scarcerazione non è liberazione. (Si esce dalla galera, ma non dalla condanna)." “la galera è “la più schifosa delle vergogne” “Jean Valjean era entrato in galera singhiozzante e fremente; ne uscì impassibile. Vi era entrato disperato, ne uscì cupo. Che era accaduto in quell'anima?” “Nell'uscire da quella cosa deforme e nera chiamata galera, il vescovo gli aveva fatto male all'anima come una luce troppo viva gli avrebbe fatto male agli occhi nell'uscire dalle tenebre.” “La galera fa il galeotto” Il tema della giustizia delle carceri, delle pena e della riabilitazione è molto cara a Hugo scrittore e poi a Hugo politico. Dentro i Miserabili c’è la storia di Jean Valjean, IL miserabile, che dopo 19 anni di galera esce trasfigurato, corrotto e deviato dalla pena. Poi poi c’è anche una scena a cui assistono Valjean e Cosette adolesce del trasporto dei carcerati: sono animali senza dignità.
Cosette Personaggio con potenzialità enormi “grazie” all’infanzia difficile, alla rinascita con Jean Valjean e al possibile triangolo (che non si realizza) con Marius ed Eponine. Eppure rimane sempre senza voce, impalpabile. Prende voce, ed è una piacevolissima sorpresa, solo alla fine, con un carattere spontaneo, fresco.
Marius Hugo lo descrive con enorme sforzo molte volte, come se temesse non sia chiaro. Infatti rimane non chiaro fino alla fine. E’ interessante il cambiamento adolescenziale da monarchico a napoleonico fino a diluirsi con la maggiore età, ma il resto del carattere è più descritto che mostrato e infatti rimane fosco. Si riprende grazie allo splendido finale. “Era realista, fanatico e austero” “Non era più Marius il sognatore entusiasta, l’uomo deciso, ardente e risoluto, l’audace provocatore del destino, il cervello che costruiva avvenire su avvenire, la giovane mente…” A pagina 654 ho fatto questa nota: Quante descrizioni di Marius! Sono capitoli che ci torna su. Ha paura di non ritrarlo bene?
Javert Uno dei personaggi migliori. Cinematografico (ha tante frasi ad effetto), devoto alla giustizia legislativa, carismatico, alla caccia di Jean Valjean per tutto il romanzo. Sembra monodimensionale e invece non lo diventa mai, tanto da mostrarsi in tutta la sua complessità nella parte finale.
Note su Hugo dal saggio Hugo era un borghese conservatore non particolarmente originale, cosa sorprendente se si pensa all’enorme impegno nel raccontare “I miserabili”; questa nota non pregiudica nulla della lettura o del romanzo in sé, ovviamente. La vita degli autori di per sé non dice nulla sulle opere (inteso come causa effetto oppure come “grande uomo-grande opera”), né c’è bisogno di vicinanza col soggetto: Tolkien non era un elfo e Capote non un assassino.
Ananke e il buio che lo accompagnerà per tutta la vita (e che gli dà tridimensionalità); come ci si aspetta, i grandi autori sono persone “rotte”. Hugo aveva una parte di sé oscura, tenebrosa che è ritornata lungo tutto la vita e ha sempre fatto da contrappeso ai suoi ideali.
Hugo era ossessivo, esuberante, strabordante. L’uso esagerato delle parole è servito anche per supporto emotivo contro l’ignoto: finché scrivo posso non ascoltare l’ignoto.
Aveva un’immaginazione visiva, vedeva i sentimenti, le emozioni, i dettagli, tutto è visivo. L’ho notato soprattutto nella difficile riflessione di Jean Valjean riguardo il consegnarsi alle autorità. In realtà tutto il libro ha bellissimi riferimenti visivi, immagini, appunto quasi cinematografiche, potenti, vaste.
Era una persona estremamente contraddittoria e ipocrita, come ci si aspetta giustamente da qualcuno di largo e grande (tutti siamo contraddittori ma i grandi artisti di più).
Un esempio della non originalità o profondità di pensiero di Hugo: p 487 “Sappiamo che esistono atei illustri e possenti. In fondo costoro, ricondotti al vero della loro stessa potenza, non sono tanto certi d’essere atei, con loro in fondo è soltanto questione di definizione e comunque, se non credono in Dio, essendo grandi spiriti dimostrano Dio”
Sono cambiato nella lettura 1300 e rotte pagine sono tante da cambiare addirittura il mio stesso approccio al romanzo. Alcune cose del romanzo, dei personaggi, della scrittura e della trama, sono passate sotto traccia per le prime centinaia di pagine. Dalle 8-900esima pagina, invece, ho iniziato a non sopportarle più. Un po’ ne ho già parlato, riassumo brevemente. La scrittura ripetitiva di Hugo; l’uso del “doppio”; le domande retoriche; le digressioni fluviali; la caratterizzazione vaga di alcuni personaggi; la voce troppo presente. Sono tutti aspetti che hanno reso la lettura, nella seconda parte, pesante. È palese che sia la descrizione plastica del rapporto libro-lettore, del fatto che un libro non è un oggetto inanimato ma vive del nostro riflesso.
E noi cambiamo con lui.
Pezzi
“Non è forse tutto? e che si può desiderare di più? Un giardinetto per passeggiare e l’immensità per fantasticare. Ai piedi quello che si può coltivare e cogliere; sulla testa quello che si può studiare e meditare; alcuni fiori sulla terra e tutte le stelle nel cielo” P.57
“Nel mondo morale non c’è più grande spettacolo di questo: una coscienza torbida e inquieta, giunta sul limitare d’una cattiva azione, che contempla il sonno di un giusto.” p. 100
p 129. “Dahlia, vedi, sono triste. E’ tutta l’estate che piove. Il vento mi fa venire il nervoso, il vento non si calma, Blachevelle è un gran tirchio, è grazia se riesci a trovare i pisellini al mercato, non si sa che cosa mangiare, ho lo spleen, come dicono gli inglese, il burro è tanto caro! e poi, vedi, è un vero orrore, stiamo mangiando in una stanza dove c’è un letto, e questo mi fa venire il disgusto della vita”.
p 145 “Una persona seduta invece di essere in piedi: i destini dipendono da questo”.
p 148 “Esistono anime gamberi che indietreggiano continuamente verso le tenebre, che retrocedono nella vita, invece di avanzare, usando l’esperienza per aumentare la loro deformità, peggiorando di continuo e impregnandosi sempre più d’una crescente nefandezza.”
p 151 “L’ingiustizia l’aveva fatta astiosa e la miseria l’aveva resa brutta. Le restavano soltanto i suoi begli occhi che facevano pena perché, grandi com’erano, sembrava di vederci una maggiore quantità di tristezza”.
p 179. “Un’anima per un tozzo di pane. La miseria offre, la società accetta”.
“Che cosa oscura l’infinito che ogni uomo porta dentro di sé e col quale misura disperatamente le volontà del suo cervello e le azioni della sua vita!”
p 235 “Tutte le cose della vita sono continuamente in fuga davanti a noi. Gli ottenebramenti e le luci ci frammischiano; dopo un abbagliamento, un’eclisse; si guarda, ci si affretta, si tendono le mani per afferrare ciò che passa; ogni evento è una svolta della strada; e d’un tratto si è vecchi.”
P 283 circa “Il parroco credette di far bene, e forse fece bene, riservando ai poveri più denaro che fosse possibile, di quanto aveva lasciato Jean Valjean. In fondo di chi si trattava? di un galeotto e una prostituta. Per questo egli semplificò la sepoltura di Fantine, e la ridusse a quello stretto necessario chiamato fossa comune. Fantine fu quindi sepolta in quella parte gratuita del cimitero che appartiene a tutti e a nessuno, e dove di sperdono i poveri. Per fortuna Dio sa dove ritrovare l’anima. Fantine fu stesa nelle tenebre, fra ossa sconosciute; ella subì la promiscuità delle ceneri. Fu gettata nella foss
pag 378 “la paura […] le faceva occupare meno posto che fosse possibile, lasciandole appena il respiro necessario”
p 449 “I grossi spropositi sono fatti spesso, come le corde grosse, di una moltitudine di fili. Prendete il cavo, filo per filo, prendete separatamente tutti i piccoli motivi determinanti, rompeteli uno dopo l’altro e dire: è tutto qui? Intrecciateli e torceteli insieme ed è un’enormità”
pag 577 “non potendo avere suo figlio, si era messo ad amare i fiori”
p 612 “Errare è umano, andare a spasso è parigino”
p 646 “ da quella specie di concentrazione risulta una passività che, se fosse ragionata, somiglierebbe alla filosofia. Si declina, si scende, si defluisce, si crolla perfino, senza quasi accorgersene. Tutto questo finisce sempre, è vero, in un risveglio tardivo. Nel frattempo pare di essere neutrali nella partita in gioco tra la nostra felicità e la nostra sventura. Noi siamo la posta, e assistiamo alla partita con indifferenza.”
p 881 “-questa poi,- esclamò Gavroche,- che roba è questa? Ripiove! Santo Iddio, se va avanti così, disdico l’abbonamento!”
p 918 “Siete voi uno di quelli che son detti felici? Ebbene, ogni giorno siete triste. Ogni giorno ha il suo gran dolore o il suo piccolo affanno. Ieri, tremavate per una salute che vi è cara, oggi temete per la vostra; domani sarà una preoccupazione di denaro, dopodomani la diatriba di un calunniatore, dopodomani ancora la disgrazia di un amico; poi che tempo fa, poi qualcosa di rotto o perduto, poi un piacere per la coscienza e la spina dorsale vi rimproverano; un’altra volta, l’andamento degli affari pubblici. Senza contare le pene d’amore. E così di seguito”
p 941 “Ma di che parlavano allora, quegli amanti? L’abbiamo visto, dei fiori, delle rondini, del tramonto, dello spuntar della luna, di tutte le cose importanti.”
p 1015 Grantaire “”Puah! ho mandato giù un’ostrica cattiva. Ecco che mi torna l’ipocondria. Le ostriche sono guaste, le serve brutte. Odio la specie umana” “c’è una sola realtà: bere” “Questa povertà di mezzi mi stupisce da parte del buon DIo. Ogni momento si deve rimettere a ingrassare la scanalatura degli avvenimenti. Si incaglia, non va. Presto, una rivoluzione” “tra gli uomini ci vogliono i geni, e tra gli eventi le rivoluzioni” “Sì, è tutto mal combinato, nulla si adatta a nulla, questo vecchio mondo è tutto sbilenco, io mi metto all’opposizione. Va tutto di traverso; l’universo da stizzire. è come coi figlioli, quelli che li vogliono non li hanno, quelli che non li vogliono li hanno. Conclusione: mi indispettisco.”
p 1133 “I bimbi poveri non entrano nei giardini pubblici; eppure bisognerebbe pensare che, come bambini, hanno diritto ai fiori.”
p 1222 “Sono troppo vecchio, ho cent’anni, ho centomila anni, da tanto tempo ho il diritto di essere morto. […] Su, è morto, proprio morto. Io me ne intendo, che sono morto anch’io”
p 1229 “Ma come fare per dare le dimissioni a Dio?”
p 1293 “Non sono di nessuna famiglia, io. Non sono della vostra. Non sono di quella degli uomini. […] Io sono il disgraziato; io sono fuori.”
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Lecce: al via “Agostiniani Libri”, la rassegna letteraria estiva del Comune.
Lecce: al via “Agostiniani Libri”, la rassegna letteraria estiva del Comune. Chiara Valerio, Francesca Giannone, Gabriella Genisi, Igiaba Scego, Nando Dalla Chiesa, Alain Elkann, Alessandro Paolucci (noto come @Dio, sui social), Giancarlo Viesti, Daniele Rielli, Diana Ligorio, Leonardo Palmisano, Mauro Favale, Sapo Matteucci, Alessio Torino, il segretario del comitato direttivo del Premio Strega Stefano Petrocchi sono alcuni degli ospiti della terza edizione di Agostiniani Libri. Per tutta l'estate la rassegna letteraria del Comune di Lecce in collaborazione con Diffondiamo idee di valore e altre associazioni, librerie e realtà attive sul territorio, che rientra nel cartellone Lecceinscena, ospiterà nel Complesso degli Agostiniani (tra il chiostro e il giardino della Biblioteca Ognibene), una serie di incontri e presentazioni di saggi e romanzi con autori e autrici pugliesi e nazionali. Dopo le due anteprime di giugno con Nicolangelo Barletti e Anna Puricella e le quattro serate della rassegna di giornalismo e comunicazione politica "Io non l'ho interrotta", venerdì 14 luglio alle 20 il chiostro ospiterà la presentazione del libro "Il fuoco invisibile. Storia umana di un disastro naturale" di Daniele Rielli (Rizzoli). Il giornalista dialogherà con Alessandra Beccarisi, docente di Storia della filosofia medievale all'Università di Foggia. Si può raccontare un dramma ecologico e sociale come se fosse un incalzante romanzo a più voci? È quello che fa Rielli. Cercando di capire cosa sta uccidendo gli ulivi della sua famiglia, ricostruisce le vicende legate all'arrivo in Puglia di Xylella, un batterio che ha causato la più grave epidemia delle piante al mondo. Tutto inizia a Gallipoli, quando gli ulivi cominciano a seccare e morire in un modo mai visto prima. Si mette in moto un vortice di avvenimenti che prende velocità fino a diventare inarrestabile. L'ulivo è l'albero simbolo della civiltà mediterranea ed è ritenuto immortale, le piazze si riempiono di manifestanti che protestano contro le misure di contenimento e la magistratura mette sotto accusa gli scienziati che hanno scoperto la malattia: è la tempesta perfetta. Oggi almeno 21 milioni di ulivi – tra cui molti alberi secolari e millenari, un patrimonio insostituibile – sono morti, è come se l'intera provincia di Lecce fosse stata bruciata da un gigantesco fuoco invisibile. Sabato 15 luglio, sempre alle 20 nel chiostro, l'autrice, scrittrice, showrunner e sceneggiatrice Diana Ligorio presenterà invece "Occhi di lupo, cuore di cane. La vita invisibile di un agente della DIA" (Bompiani) con il giornalista Gabriele De Giorgi. Interverrà Matilde Montinaro, sorella di Antonio Montinaro, caposcorta salentino di Giovanni Falcone, morto nella strage di Capaci con il giudice, la moglie Francesca Morvillo e i due colleghi Vito Schifani e Rocco Dicillo. Nell'estate del 1992, dopo le stragi di Capaci e via D'Amelio, per rispondere a questo attacco durissimo lo Stato sta silenziosamente mettendo in campo un corpo speciale, nato da un progetto dello stesso Giovanni Falcone: la DIA, Direzione investigativa antimafia, che riunisce i migliori uomini di tutte le forze dell'ordine. Sono uomini che per mettersi in caccia di chi ha ucciso Falcone e Borsellino lasciano le famiglie, vivono sotto copertura in alberghi di quart'ordine, hanno a disposizione strumenti rudimentali ma sono animati dal sentimento altissimo di una missione che li unisce come fratelli. In questo romanzo uno di loro trova il coraggio di raccontare le indagini, le ore di ascolto delle voci intercettate, l'adrenalina dei blitz, le ossessioni e le emozioni di quei giorni cruciali: le racconta a suo figlio, che a quel tempo era un bambino pieno di nostalgia per il padre sempre lontano. Allora, a quel bimbo aveva raccontato di essere un animale speciale, dotato degli occhi feroci di un lupo ma del cuore fedele di un cane: oggi gli spiega come diventare invisibile sia stato l'unico modo per proteggere lui e sua madre mentre lavorava per catturare gli assassini di Giovanni Falcone. Con precisione e passione Diana Ligorio dà vita a un romanzo che è al tempo stesso una emozionante avventura investigativa e lo struggente viaggio dentro un rapporto tra un padre e un figlio. Giovedì 20 luglio, Agostiniani libri proseguirà con l'ormai consueta Serata Strega, promossa in collaborazione con "Armonia. Narrazioni in terra d'Otranto", Associazione Narrazioni e Libreria Idrusa. Con il segretario del comitato direttivo Stefano Petrocchi e altri ospiti si parlerà del romanzo vincitore dell'ultima edizione del premio letterario, "Come d'aria" di Ada D'Adamo, scrittrice abruzzese scomparsa pochi mesi fa, e degli altri romanzi finalisti. Tra luglio e agosto la rassegna (sempre con inizio alle 20) ospiterà poi l'economista Giancarlo Viesti e il suo saggio "Riuscirà il PNRR a rilanciare l'Italia" (22 luglio), la scrittrice salentina Francesca Giannone con il suo fortunato romanzo d'esordio "La portalettere" (25 luglio), Leonardo Palmisano con l'appena uscito "Il tradimento è un delitto – Un complicato affare per il bandito Mazzacani" (2 agosto), Chiara Valerio con "La tecnologia è religione" (3 agosto), il "Dio" dei social Alessandro Paolucci con "Storia stupefacente della filosofia" (4 agosto) e Mauro Favale autore con Tommaso De Lorenzis del libro "L'aspra stagione" (9 agosto). Dopo una piccola pausa, gli incontri riprenderanno (con inizio alle 19) con Igiaba Scego e il suo romanzo "Cassandra a Mogadiscio" (1 settembre), Nando Dalla Chiesa con "La legalità è un sentimento. Manuale controcorrente di educazione civica" (5 settembre), Alain Elkann con "Adriana e le altre" (7 settembre), Sapo Matteucci con "Per futili motivi", romanzo finalista del Premio Viareggio Rèpaci (8 settembre) e Gabriella Genisi con il suo ultimo romanzo "L'angelo di Castelforte", ambientato nel Salento con protagonista la carabiniera ribelle Chicca Lopez (14 settembre), il latinista e scrittore Alessio Torino con il romanzo "Cuori in piena" (data da confermare). La rassegna si completa con lo spazio dedicato ad autori ed editori locali messo a disposizione all'interno del Complesso degli Agostiniani. «Agostiniani Libri arriva alla sua terza edizione – dichiara l'assessora alla Cultura Fabiana Cicirillo – con un nuovo slancio, grazie alla collaborazione con l'associazione Diffondiamo idee di valore, e proponendo un ricco calendario di incontri con autrici e autori che ci accompagnerà per tutta l'estate, spaziando fra romanzi e saggi d'attualità. Il complesso degli Agostiniani con la biblioteca OgniBene è per noi il polo della lettura e della cultura locale, sempre più conosciuto dai leccesi stessi oltre che dai turisti, grazie alle tante iniziative che quotidianamente ospita. Un luogo di comunità vivo e vissuto da tante generazioni diverse, dai bambini agli anziani, sia d'inverno che d'estate».... #notizie #news #breakingnews #cronaca #politica #eventi #sport #moda Read the full article
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Opinione: La Donna In Nero, di Susan Hill
Arthur Kipps, giovane avvocato londinese, viene incaricato di gestire l'eredità e presenziare al funerale della signora Alice Drablow, l'unica abitante di Eel Marsh House. L'antica dimora si erge in fondo a un sentiero percorribile solo con la bassa marea, immersa nella nebbia e nel mistero; ma ciò non basta a spaventare Arthur. È solo quando al funerale scorge una giovane donna vestita di nero che un sottile senso di inquietudine inizia a pervaderlo. Una sensazione che diventa via via più pressante quando, a Eel Marsh House, Arthur rivede l'apparizione, mentre gli abitanti del luogo si mostrano sempre più reticenti a parlare di quella figura misteriosa, e dei suoi veri scopi. Nonostante questi oscuri presentimenti, Arthur decide di portare a termine il suo incarico e, per mettere ordine tra i documenti di Alice, trascorre la notte nella casa. Una decisione di cui presto si pentirà.
Ammetto che questa ristampa mi ha incuriosito molto. Avevo visto il film che ne avevano tratto anni ed anni fa, trovandomi annoiata (magari lo riguarderò giusto per farne un paragone con romanzo) e volevo scoprire la storia originale.
Mi sono rifiutata di comprare il libro: seppur la cover è davvero bella, è un formato minuscolo che (almeno per ora) non mi fa impazzire. E costicchia anche un po' troppo per questo dettaglio non da poco.
Detto alla brutta: se fai una versione economica, pure piccola, flessibile,...devi stare molto più basso col prezzo.
Ma torniamo a noi. L'ho recuperato con l'audiolibro e ammetto che spesso la mia mente divagava. Ero abbastanza annoiata. Ho anche riflettuto riguardo al fatto che avesse i suoi anni, e quindi non mi piacesse per quello (mi è capitato spesso), ma essendo degli anni '80 non era proprio così vecchio. Seppur ha uno stile da gotico molto più antico, che come inizio mi aveva incuriosito, andando avanti...ahimè...
Comunque postilla magari inutile, curiosando sull'anno di pubblicazione ho scoperto che questa donna ha pubblicato una quantità enorme di romanzi e racconti.
Da noi è stato tradotto questo e altri due romanzi. Fine.
La storia parte, come molte altre, dalla fine. Un uomo anziano che in una notte di racconti di fantasmi con la sua famiglia decide di metter per iscritto ciò che ha vissuto, non avendo il coraggio di raccontarlo apertamente. Come per toglierselo dalla mente.
Si torna così indietro nel tempo, quando era un giovane avvocato che viene mandato per "gestire" l'eredità di una donna che viveva isolata dal resto della comunità in una casa raggiungibile solo con la bassa marea. A render il tutto ancora più inquietante una strana presenza di cui nessuno vuole parlare, come succede spesso nelle piccole cittadine.
Ovviamente questa è legata alla defunta ed alla casa, e mano a mano che questo giovane metterà insieme i dettagli per scoprire la storia dietro tutto ciò, le cose andranno peggiorando.
Una lettura per niente paurosa. Abbastanza scorrevole, seppur alcune pagine e dettagli siano forse "troppo". Non particolarmente prevedibile, ma che nemmeno lascia scioccati.
Insomma, niente di ch��.
O perlomeno, mi baso sul mio ascolto. Magari leggendolo avrei avuto impressioni molto diverse.
Anche in questo caso, consigliarlo o no?
Eh, difficile. Probabilmente lo rileggerò in futuro, per dargli un'altra chance.
Ma, a freddo visto che è passato parecchio tempo, non saprei proprio.
Se vi piacciono i romanzi lenti, gotici, con fantasmi ma non spaventosi, un mistero familiare da risolvere, potrebbe piacervi.
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Il Fragore del ricordo di Anna Maria Basso
Un diario ritrovato Il Fragore del ricordo di Anna Maria Basso edito da Bonfirraro è un libro appassionante che ci svela l’importanza dei ricordi e la necessità di mantenerli vivi per costruire un futuro consapevole. Il romanzo è un racconto corale che, dal cuore della città di Napoli e passando per Maratea, ci conduce fino a Dallas, negli Stati Uniti. Tutto inizia in modo occasionale. Lara è una giovane neurologa lucana che studia le malattie neurodegerative e che ha ottenuto un contratto di ricerca presso l'Università UTS di Dallas. La sua professione si intreccia improvvisamente con la storia della sua famiglia quando Lara, prima di andare via, scopre un diario della nonna Adelina. Un mondo di sogni e desideri mancati, gioie e dolori si svela a Lara che porta nel cuore, dall’altra parte del mondo, la vita nella nonna. In America Lara vive una nuova vita fatta di successi, nuovi amori e nuove conoscenze su cui ricama la storia della sua adorata Adelina. Nel Fragore del ricordo di Anna Maria Basso non mancano forti riferimenti ad argomenti sociali e legati alla solidarietà, tematiche a cui l’autrice nei suoi romanzi ha sempre dato ampio spazio. Anna Maria Basso è nata a Potenza, dove vive. È autrice di opere poetiche: Attese (1999), Images/Trame (2001), Quel palpito d’altrove (2010), premio Matera 2019, capitale europea della Cultura, e di racconti brevi, pubblicati in raccolte antologiche. È presente in diverse riviste letterarie nazionali e internazionali. È componente di giurie. Coordina gruppi di lettura nell’ambito del Premio Basilicata e collabora alla promozione e realizzazione di iniziative culturali. “L’impermanenza” (2018) è il suo primo romanzo. Il Fragore del ricordo di Anna Maria Basso Nell’intervista di oggi, l’autrice ci parla di molti aspetti legati al suo libro che, al di là della storia, appassionante e ricca di risvolti, si presta a diversi livelli di lettura. Grazie alla disponibilità dell’autrice, oggi parleremo di tematiche interessanti tra cui il tema generazionale, le malattie neurodegenerative, l’importanza dei ricordi e molto altro; grandi temi che affiorano tra le pagine del Fragore del ricordo. Nel suo romanzo si racconta la storia di due donne, due generazioni a confronto. Perché ha scelto di soffermarsi su questo tema? Il tema generazionale è sempre più considerato come la lente d’ingrandimento attraverso cui interpretare l’evoluzione della società e le trasformazioni culturali che ne seguono. Ogni generazione porta con sé una visione del mondo, una filosofia di vita, bisogni, valori, stili di comunicazione, di relazione, di linguaggio, molto diversi tra loro ma anche con alcuni punti di contatto. La generazione di Adelina è quella del post-guerra, della ripresa economica, del cambiamento, delle innovazioni. Quella di Lara è la generazione dei Millenials, quelli con più istruzione e con maggiori aspettative sul mondo del lavoro, i primi ad avere dimestichezza con gli ambienti e le tecnologie digitali. Pertanto soffermarmi su questo tema mi ha consentito di inserire più spunti di riflessione nella narrazione, anche riguardo ai livelli di parità di genere diversi nelle due generazioni a confronto. Adelina e Lara sono le protagoniste del suo libro. Hanno qualcosa in comune i due personaggi? Pur appartenendo a due generazioni diverse, Adelina e Lara, le due protagoniste del libro, hanno molte cose in comune. Intanto l’affetto familiare che le lega profondamente tanto da essere sempre l’una il sostegno dell’altra. Poi la determinazione, quell’aspetto caratteriale che le porta ad affrontare la vita con la consapevolezza della propria destinazione e a saper gestire le difficoltà con coraggio anche quando le strade intraprese si presentano piene di ostacoli e interruzioni e occorre prendere altre direzioni. Un altro punto in comune tra le due protagoniste è il senso di appartenenza alla propria terra anche se scoperto da Lara attraverso l’allontanamento e la mancanza. Il suo autore preferito le farà scoprire che: ”Ogni posto è una miniera... uno specchio sul mondo, una finestra sulla vita... un teatro di umanità... la miniera è esattamente dove si è. Basta scavare.” (Tiziano Terzani). C’è un tema del romanzo che ha trattato e che le sta particolarmente a cuore? Sì, certo. È il tema del ricordo che diventa il leitmotiv di tutta la narrazione. Oggi viviamo sempre più nel tempo smemorato. Un tempo che non ci educa più al sentimento del passato, a quella naturalezza del rievocare non solo le cose belle ma anche quelle meno piacevoli per farci scorgere la risorsa nascosta che può accompagnarci, nel modo giusto, attraverso il presente, verso il futuro. Ricordare è riportare al cuore ciò che si è vissuto o tornare al cuore delle cose vissute dove abbiamo la possibilità di rinnovarle guardandole con occhi nuovi e scoprendone significati diversi. Ecco perché il ricordo fa rumore, quel rumore che scaturisce da qualcosa che rompe, si rompe o irrompe come il tuono dopo il lampo. È legato a questo tema anche la perdita dei ricordi causata da una nota malattia neurodegenerativa e l’importanza della ricerca scientifica. Perché perdere il passato, la nostra memoria, è perdere il proprio fondamento, la coscienza di sé nel tempo. “Il Fragore del ricordo” è il suo secondo romanzo. C’è un filo conduttore che lega entrambi i romanzi oppure sono due lavori completamente diversi? Le trame, ovviamente, sono completamente diverse. Nel mio primo romanzo, l’Impermanenza, predomina il tema del viaggio come ricerca interiore. Il protagonista è un uomo tormentato dai suoi limiti, capace di vivere solo fuggendo da se stesso in un orizzonte fatto di ritorni e di partenze ma che tenta di recuperare un suo equilibrio nell’attesa di un’apertura più fiduciosa verso il mondo. Anche per le protagoniste del mio secondo lavoro si può parlare di viaggio interiore. Per Adelina è quello che fa quando lascia tra le pagine di un diario la sua vita per sottrarla all’oblio. Per Lara è il viaggio oltreoceano che diventa un percorso individuale che culmina in una sorta di interiore catarsi. Penso, inoltre, che si possa rintracciare qualche legame tra i miei due romanzi anche negli intenti narrativi. Come l’inserimento di temi sociali, l’interesse rivolto al mondo della medicina, la costruzione del setting, come dicono gli inglesi: ambienti e paesaggi che cerco di far diventare parti integranti della storia, quasi a renderli essi stessi personaggi. Cos’è per lei la scrittura? E per Adelina? Per me la scrittura è prima di tutto un’arte: è rappresentare attraverso le parole la vita, come un pittore fa con i colori. Ma è anche un viaggio nelle parole con le parole alla scoperta di sé e dei propri campi emotivi. E sono le parole a condurmi lungo la strada della scrittura, quelle parole che “... come carovane si muovono alle prime luci del giorno sino a sera, s’intrecciano, si snodano, si perdono, si ritrovano, disegnano orme... alla ricerca di se stesse, del loro senso, della loro essenza...poi riprendono il cammino. Perché c’è una vita da inventare. Una vita da raccontare. Ogni giorno.” (Da Quel palpito d’altrove) Per Adelina la scrittura è salvare la sua vita dalla dimenticanza, fermarla sulle pagine di un quaderno perché possa un giorno diventare memoria. Un quaderno fatto anche di pagine bianche dove continueranno a vivere i suoi sogni irrealizzati, il suo amore impossibile. Read the full article
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"Lo Scricciolo" di Kristy McCaffrey: Un'avventura d'amore nel selvaggio West. Recensione di Alessandria today
Il primo capitolo della serie "Ali del West" intreccia passione, coraggio e una storia di rinascita.
Il primo capitolo della serie “Ali del West” intreccia passione, coraggio e una storia di rinascita. Recensione: Kristy McCaffrey, già nota per le sue storie ambientate nel selvaggio West, ci regala una nuova avvincente avventura con “Lo Scricciolo”, primo libro della serie “Ali del West”. Ambientato in un’epoca di grandi cambiamenti e forti passioni, il romanzo segue la vita di Emma Hart, una…
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Riccardo, dimmi un oggetto spaventoso
- Non saprei prof. … ma proprio un oggetto? O una cosa astratta? Tipo la morte, le guerre, le malattie, i terremoti? O un animale spaventoso, l’anaconda gigante, l’orca assassina…
- No no, proprio un oggetto, una cosa fisica, una cosa che fa veramente paura.
- Oddio… ma che le devo dire? Una motosega impazzita?
- Più spaventosa…
- Un coltello a serramanico con una lama affilatissima?
- Dilettante… più spaventosa!
- Ah ecco prof. Ci ho pensato: un kalashnikov, anzi un mitra superautomatico.
- Riccardo, puoi fare di meglio.
- Aspè, mo ho capito dove vuole arrivare, un bel discorsetto pacifista di quelli che le piacciono tanto… vabbè è facile: la bomba atomica!
- Riprova!
- …. Un… un virus?
- Coraggio Riccardo, pensa.
- Ahhh era un trabocchetto, prof. ma io la conosco, ho capito, ora ho capito: vuole che io dica la plastica, così lei parte con il sermone ecologista: stiamo distruggendo il pianeta, è colpa nostra che compriamo le bottigliette di plastica, che non facciamo la differenziata e le tartarughe marine soffocano… o forse, aspè no no la plastica, i mozziconi di sigaretta, oppure, oppure….
- Che fai ti arrendi, Riccardo?
- Non è la plastica?- No. Ti do un indizio. Sta sul tuo banco.
- …? ma io c’ho solo il libro di storia sul banco, prof. ci vede bene??
- Benissimo. Io ci vedo benissimo. E sul tuo banco vedo un oggetto spaventoso, terribile, pauroso. Così pauroso che voi giovani per primi avete difficoltà ad usarlo. E a usarlo come si deve. Ma così terrificante che c’è gente più grande di voi che davanti a questo piccolo oggetto ha reazioni inconsulte.
C’è chi si limita a starne il più possibile lontano, per paura, per pigrizia e per ignoranza.
E c’è chi prende in giro chi li ama, chiamandoli secchioni, nerd, sfigati.
E poi c’è chi se la prende direttamente con loro. E arriva a bruciarli, per paura della forza straordinaria che i libri emanano. Sai, i libri hanno una colpa imperdonabile: aprono la mente, fanno pensare. E c’è chi per paura, per ignoranza, per odio pensa bene di bruciarli. È successo tante volte in passato, dal medioevo in poi fino al mostruoso rogo dei libri del 1933.
E succede ancora oggi. Si bruciano le librerie perché i libri fanno paura.
E allora ragazzi leggete, leggete, leggete. Romanzi, poesie, saggistica, storie d’amore, d’avventura, di viaggi: storie. Non abbiate paura! Leggete. Così non dimenticherete la Storia.
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“Mi rendo conto che c'è un'enorme confusione sul problema della mafia. I mafiosi stanno in Parlamento, i mafiosi a volte sono ministri, i mafiosi sono banchieri, i mafiosi sono quelli che in questo momento sono ai vertici della nazione.”
Così scriveva Giuseppe Fava, giornalista “scomodo”. Un giornalista che faceva troppe domande, indagava, trovava nessi impronunciabili tra mafia, potere economico e politica. E puntava il dito contro un vero e proprio “groviglio di serpenti”.
Dirigeva Il Giornale del Sud con coraggio e spirito libero, ma i suoi articoli contro la base missilistica di Comiso, le denunce contro i boss locali, il suo non piegarsi a nessun tipo di potere, gli attirarono le ostilità dei nuovi editori che lo licenziarono. Nuovi editori che, guarda caso, erano amici dei boss mafiosi di cui Giuseppe Fava scriveva.
La sua fede nella forza del giornalismo d’inchiesta lo portò a indebitarsi per fondare un suo giornale dove poter scrivere liberamente: I Siciliani. Qui accusò pubblicamente imprenditori e politici catanesi di essere collusi con la mafia, in particolare con il boss Nitto Santapaola. Non usava mezzi termini Giuseppe Fava, ma tutto questo negli anni Ottanta nessuno lo voleva sentire. Lui però continuava a scrivere quello che nessuno voleva dire e per questo pagò un prezzo troppo alto.
I soliti noti provarono a fermarlo, cercando di comprare il suo giornale. Ma Giuseppe Fava rifiutò decisamente, pur sapendo che il suo destino, probabilmente, era ormai segnato:
“Tanto, lo sai come finisce una volta o l'altra: mezzo milione a un ragazzotto qualunque e quello ti aspetta sotto casa”.
E purtroppo aveva drammaticamente ragione:
Il 5 gennaio del 1984, uscito dalla redazione del suo giornale, salì in macchina. Doveva andare a teatro, ma un sicario della mafia (mandato da Nitto Santapaola, come accerterà la Corte di Cassazione nel 2003) lo uccise con cinque colpi di pistola.
Ucciso per quello che aveva avuto il coraggio di scrivere. Ennesima vittima della mafia, in un paese in cui dire la verità è sempre troppo pericoloso. Ma come scriveva Giuseppe Fava:
“A che serve vivere, se non c’è coraggio di lottare?”
🦋La farfalla della gentilezza🦋
Oltre a essere un giornalista coraggioso Fava era anche uno scrittore, drammaturgo e saggista, e forse il modo migliore per ricordarlo è proprio attraverso i suoi tanti libri, non solo saggi sulla mafia ma anche testi teatrali e romanzi come Gente di rispetto o Prima che vi uccidano.
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Lista di romance a tema Mail order brides
Nel vecchio west, vista la mancanza di donne alla frontiera e nei nuovi territori appena colonizzati, era usanza che gli uomini mettessero annunci sui giornali delle città dell’est per cercare moglie, e le donne, spinte dalle più varie ragioni (di solito, se una donna rispondeva ad un tale annuncio era perché aveva dei problemi a trovare marito in altro modo o non aveva altro modo di mantenersi) potevano rispondere all’annuncio via lettera. Ne conseguiva una corrispondenza che spesso si concludeva con l’uomo che pagava il viaggio alla donna che lo raggiungeva e i due, pur non essendosi mai visti, si sposavano.
Ed esiste una nicchia del genere romance che ha come tema proprio queste spose per corrispondenza. Io ho avuto un per un certo periodo la mania di questi romanzi, perciò ho deciso di creare una lista di alcuni titoli da proporvi nel caso possa interessare anche a voi questo sottogenere.
The Brides of Praire Gold di Maggie Osborne
Inedito in italiano
https://amzn.to/2OFQKEG
Trama: Cody Snow non sa cosa l’abbia spinto ad accettare l’incarico di guidare una carovana di dodici spose per corrispondenza dal Missouri fino a Clampet Falls, Oregon, ma già prima di partire si è pentito di averlo fatto. Non solo dovrà sorbirsi le loro innumerevoli lamentele e proteggerle dai pericoli del viaggio, ma dovrà anche combattere contro l’attrazione che prova verso una di loro, Perrin Waverly, poiché lei è promessa ad un altro, e lui ha giurato a se stesso dopo la morte della moglie, che non si sarebbe mai più sposato.
La mia opinione: Il mio libro preferito di questa autrice. Si tratta di un libro corale, cosa che di solito non apprezzo, ma in questo caso è il metodo giusto per farci conoscere bene alcune delle spose che hanno disparati motivi per imbarcarsi in questo viaggio così duro e pericoloso: Perrin è vedova, non può mantenersi da sola e non vuole rimanere nel suo paesino dove la sua reputazione è a pezzi a causa di un suo errore di giudizio dovuto però alle sue circostanze. Le pesa andare a sposarsi lontano, non per il viaggio, ma per il fatto che gli uomini l’hanno sempre sfruttata o delusa e non crede che la cosa sarà diversa stavolta. Mem invece è una donna troppo indipendente, troppo alta e schietta per trovare marito nel suo paesino, e ha sempre sognato di vivere un’avventura, desidera ardentemente questo viaggio, e le spiace un poco che sua sorella, che dipende un po’ troppo da lei, abbia deciso di seguirla perché è rimasta vedova da poco. Hilda è una maestra troppo brutta per trovare marito in altro modo e abbastanza piena di coraggio tedesco per tirarsi indietro davanti a questa sfida. Sarah, vedova di un ufficiale, ha viaggiato al suo fianco per il mondo e sa cosa aspettarsi da questo viaggio, troppo avanti con gli anni, ormai trentenne se vuole marito deve andarselo a trovare e non ha certo remore a farlo. Augusta dopo gli sbagliati investimenti del padre e il suo suicidio non possiede più nulla al mondo se non l’orgoglio di quella che una volta era la famiglia più ricca della città e odia l’idea di questo viaggio, ma non ha altra scelta. Jane, figlia di un pastore si unisca alla carovana per non viaggiare sola verso il suo promesso sposo che conosce già bene e che l’aspetta. Alice è in fuga sotto falso nome da un marito troppo manesco. Thea, una dotata disegnatrice, timida e riservata, spera in un nuovo inizio. Cora, una povera serva illetterata non ha altre prospettive. Winnie è assuefatta all’oppio e i genitori sperano che allontanarla dal paese potrà aiutarla, mentre Ona nasconde un segreto ancora più oscuro.
Il viaggio viene descritto non con troppi tediosi particolari, ma con la giusta accuratezza. Le difficoltà grandi e piccole, i problemi su come e dove occuparsi dei propri bisogni, la polvere, la sporcizia, la stanchezza la malattia, eppure è tutto parte di uno sfondo pittoresco e verosimile a una storia romantica e avvincente. In particolare, oltre alla storia principale tra Perrin e Cody. Assistiamo al triangolo amoroso tra Webb, la guida indiana della carovana (che in realtà è solo per metà indiano ed è unico erede maschio di Lord Albany, Un ricco Duca inglese), Augusta bellissima, ma arrogante e razzista, e Mem, non bella, ma atletica, dolce coraggiosa e sopra ogni cosa amichevole, leale e curiosa. Webb all’inizio è attratto dall’incredibile bellezza di Augusta, ma quando lei lo respinge perché mezzo indiano, per fortuna si accorgerà di Mem…..Ora queste poche parole non vi rendono l’idea della loro storia che è davvero molto dolce ed è la parte del libro che ho amato di più, ma fidatevi se vi dico che vale veramente davvero la pena di leggere questo romanzo. Poiché oltre a tutto ciò che vi ho già detto contiene anche un mistero da risolvere……
The bridal veil di Alexis Harrington
Inedito in italiano
https://amzn.to/3lqZdr3
Trama: Emily Cannon non è la sposa a cui Luck Becker aveva scritto, ma la sorella di mediocre bellezza e troppo alta. Quando sua sorella è morta e Emily è rimasta sola al mondo, in un raro momento di impulsività ha deciso di prendere il suo posto come sposa per corrispondenza. Certo non è bella come lei, ma in fondo il futuro sposo non aveva mai visto la sua interlocutrice e poi se non possiede la bellezza, Emily ha molte altre capacità, e dopo una vita passata con genitori che le hanno sempre detto che non era bella o speciale, non è che non si aspetti molto. Eppure ci rimane comunque male quando Luck la vede e subito la rifiuta. Luck però non può fare lo schizzinoso, ha bisogno di una madre per sua figlia, e accetta di sposare Emily, che per di più dopo il viaggio non ha più un soldo. Ma mette subito in chiaro che lei sarà una governante non sua moglie sul serio. Emily china la testa, ci è abituata e accetta. Nel suo baule ha l’abito da sposa e il velo di sua sorella, ma non li indossa per la cerimonia, dopotutto non è un vero matrimonio, e ripone anche quel sogno di un matrimonio in bianco, in un cassetto.
La mia opinione: Non amo particolarmente questa autrice, ma stavolta ha colto nel segno con una storia semplice ma toccante e non troppo melodrammatica come suo solito. Qui ogni personaggio non è nè completamente buono nè completamente cattivo, tranne Emily, e tutti hanno chiari motivi per essere ciò che sono. L’unica cosa che non mi è piaciuto è il rifiuto iniziale di Luck verso Emily.
The texan’s wager di Jodi Thomas
Inedito in italiano
https://amzn.to/3trRHz8
Trama: Scacciata dal treno con altre due donne, nel tentativo di evitare di essere arrestata per omicidio Bailee Moore accetta di partecipare a una Lotteria delle mogli, l’ultima trovata dello sceriffo di Cedar Point per procurare delle spose ai suoi concittadini. Bailee non è certo felice di essere costretta a sposarsi, anche perchè il suo nuovo marito, Carter McKoy, è il tipo più silaenzioso che abbia mai conosciuto. Forse però quell’uomo forte e taciturno potrebbe rivelarsi la chiave per un futuro migliore se sarà disposta a mettere in gioco il suo cuore.
La mia opinione: Molto ironico oltre che romantico, se si apprezza l’ironia in un romance questo è certamente carino e piacevole.
Moglie per procura (Eternity) di Jude Deveraux
https://amzn.to/2OzeZ7C (c’è anche in ebook)
Trama: Carrie Montgomery è un'incantevole e viziatissima ragazza del Maine. Insieme alle sue amiche si occupa di combinare matrimoni per corrispondenza: attività davvero insolita, ma capace di riservare imprevedibili sorprese. Joshua Greene è uno dei suoi clienti. Contadino di un piccolo villaggio del Colorado, Joshua è alla ricerca di una donna che si prenda cura dei suoi figli e della fattoria dove vivono. Carrie si innamora del suo sguardo in fotografia, e pur non possedendo i requisiti richiesti decide di sposarlo per procura e di partire alla volta di Eternity. L'ostilità di Joshua, però, mette a dura prova la sua testardaggine. E qualcosa d'inaspettato emerge dal passato dell'uomo…
La mia opinione: anche questo è un libro molto ironico e divertente. Diverso dagli latri di questa utrice di solito molto più pesante.
Sposa di città (The Courtship Of Izzy McCree) di Ruth Langan
https://amzn.to/3cKH57E
Trama: Isabella, Izzy, McCree non ha mai conosciuto l'affetto di una famiglia e per questo motivo si lascia tutto alle spalle per iniziare una nuova vita rispondendo all'appello della lettera di un uomo che cerca una moglie per sé e una madre per i suoi bambini.Ma Matt Prescott, troppo impegnato ad allevare i quattro figli e a mandare avanti la fattoria, ha dimenticato come si faccia a corteggiare una donna, specialmente se questa si ritrae spaventata ogni volta che lui la sfiora.Sarà Isabella che, a poco a poco, scoprirà il lato tenero e affettuoso di Matt cominciando a fidarsi di lui e delle sue carezze...
La mia opinione: libro estremamente semplice e molto simile a THe bridal veil, però comunque piacevole.
Want Ad Wedding di Cheryl St. John
Inedito in italiano
https://amzn.to/30RPEIA
Trama: Quando Daniel Gardner ha convinto i suoi concittadini ha mettere sul giornale un annuncio per delle spose per corrispondenza, non si aspettava certo di rivedere il suo primo amlore scendere dal treno tra di loro. Leah è incinta, vedova e bisognosa di marito e Daniel le offre un matrimonio di convenienza per potersi prendere cura di lei. Leah è felicissima di accettare la proposta del suo caro amico d’infanzia.. Ma quando inizierà a innamorarsi di suo marito, i suoi piani per un nuovo inizio saranno rovinati ... o un vero matrimonio con Daniel è esattamente ciò di cui ha bisogno?
La mia opinione: semplice e carino. Niente di straordinario, ma se non altro il fatto che i due non siano sconosciuti, ma anzi si conoscano fin da bambini da un piglio diverso a tutta la storia.
Verso l’amore (Always and Forever) di Beverly Jenkins
https://amzn.to/3tHivM7 (c’è anche in ebook)
Trama: Volitiva e indipendente, l'ereditiera Grace Atwood non è tipo da piangersi addosso. Abbandonata dal promesso sposo neppure mezz'ora prima della cerimonia, decide di lasciare per qualche mese la banca che dirige a Chicago: condurrà una carovana di sole donne fino a Kansas City, dove sono attese da uomini sposati per corrispondenza. Ha bisogno però di una guida esperta, e l'affascinante e sfacciato Jackson Blake è l'uomo giusto, in ogni senso. Si dimostrerà infatti il solo a saperle tenere testa, e allo stesso tempo capace di portare alla luce la donna sensuale che si cela in lei. Ma Jackson, perseguitato dai demoni del proprio passato, sembra non poter offrire a Grace altro che una vita in fuga…
La mia opinione: anche questo è un libro fuori dalle solite trame, con protagonisti di colore e appartiene al filone dei libri mail order bride dove si racconta il viaggio, più che l’arrivo delle spose.
La sposa di Boston (The endearment) di Lavyrle Spencer
https://amzn.to/38FiMqO
Trama: Un fratello di tredici anni ed un cumulo di menzogne è tutta la dote che Anna Reardon porta a Karl Lindstrom, l'uomo che ha ordinato una moglie per posta. Ridotta alla disperazione da una vita di stenti e di squallore, Anna lascia Boston diretta nel lontano Minnesota, dove l'attende il suo futuro marito. Anche se la giovane non corrisponde affatto alla donna matura ed efficiente che Karl aveva richiesto, tra i due scocca la scintilla di un amore tenero e appassionato. Il generoso Karl perdona alla moglie i tanti inganni, ma c'è ancora un segreto che lei gli nasconde e che il suo orgoglio d'uomo non può accettare...
La mia opinione: libro dalla trama semplicissima, e con personaggi altrettanto semplici perchè veramente molto giovani. Però scritto veramente bene e molto più lungo degli altri.
La nave delle spose di Deborah Hale
https://amzn.to/3rXhnU3
Trama: Nuova Scozia, 1818 - Una nave che trasporta quaranta giovani spose destinate ai coloni della Nuova Scozia arriva senza preavviso nel porto di Halifax. Anziché accoglierle con un caldo benvenuto, però, il governatore della colonia, Sir Robert Kerr, scambiandole per donne di malaffare proibisce loro di scendere a terra e cerca addirittura di rimandarle indietro. Ma Jocelyn Finch, avvenente vedova che accompagna le ragazze, non si dà per vinta e sfida il governatore a duello, lasciando a lui la scelta delle armi. L'uomo, restio a combattere contro una donna con la spada o la pistola, decide per una partita a scacchi… e viene clamorosamente sconfitto. Così Jocelyn ottiene il permesso di restare e di portare a termine la sua missione. E inevitabilmente, come Sir Robert temeva, finisce per creare scompiglio in città e nel cuore dell'affascinante governatore.
La mia opinione: non è il mio libro preferito della Hale, direi piacevole, ma non ho amato tantissimo i protagonisti, in particolar modo lei.
#romanzi con spose per corrispondenza#Deborah Hale#LaVyrle Spencer#ruth langan#Beverly Jenkins#cheryl st. john#jude deveraux#jodi thomas#Alexis Harrington#Maggie Osborne
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“Lui si porta i libri di Kafka ma poi studia solo ogni cu*o che passa”. Le hit dell’estate più rarefatta del secolo, ovvero: sull’analfabetismo della musica italiana (che spacciano per indagine socio-artistica)
Ci si attendeva tonnellate di romanzi claustrofobici incubati durante la clausura anticontagio (arriveranno, dategli tempo) e di film ambientati nella cattività degli zoo per umani che sono diventate le città (purtroppo a quello di Enrico Vanzina ne seguiranno altri), così nel frattempo sono tornate le canzoni. Anzi le hit, come sono chiamate quelle produzioni che dovrebbero durare quanto gli assorbenti e invece diventano la colonna sonora delle stagioni.
Ci sono sempre state le hit, ma quelle imposte dalle radio durante l’estate post Covid – la più rarefatta e sospesa dell’ultimo secolo – oltre a rinsaldare i nostri vincoli affettivi con la mediocrità sembrano aver individuato la loro funzione sociale: sono diventate il piccone con cui demolire quel che resta della lingua italiana, il machete con cui smembrarla a beneficio di una comunicazione orizzontale, istantanea, indistinguibile e quindi informe. «Senza studiare, senza fiatare, basta intuire che è anche troppo, colpo d’occhio è quello che ci vuole, uno sguardo rapido» scriveva Ivano Fossati (Il battito, 2006), preconizzando la necessità di sintonizzare le nostre frequenze filologiche su onde sempre più elementari, catacombali: «Dateci parole poco chiare, quelle che gli italiani non amano capire, basta romanzi d’amore, ritornelli, spiegazioni, interpretazioni facili – diceva Fossati – ma teorie complesse e oscure, lingue lontane servono, pochi significati, titoli, ideogrammi, insegne, inglese, americano slang». Si argomenta spesso della crisi della letteratura, del vuoto intorno al cinema e della mancanza di coraggio dell’arte italiana, ma la verità è che dalla musica pare non ci si possa aspettare altro che disgregazione, chiacchiericcio, volgarità più o meno esplicite, analfabetismo a rigorosa misura di social. Ma guai a scambiarla per sottocultura, al contrario questa potrebbe essere la nuova frontiera della dignità autoriale con cui viene chiesto di fare i conti agli interpreti del nostro tempo, e chi non risponde «presente» o è tagliato fuori o è un dinosauro (come chi scrive).
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La morte di una lingua.
Per brevità (ovvero banalità), velocità di trasmissione e universalità del messaggio, le canzoni post Covid sono diventate l’espressione più allarmante della deriva del Paese e della Lingua, nonostante questa rimanga tra le più belle, complesse e tradotte al mondo. Ma forse è proprio questo il demonio contro cui combattere, il padre nobile e ingombrante da abbattere. Forse alle nuove generazioni di produttori e compositori non va giù proprio questo, l’insopportabile paragone con un passato impietoso sotto troppi aspetti: nobiltà della missione, qualità del prodotto, straordinaria ricchezza artistica, inarrivabile varietà di proposte, mercato che oggi semplicemente non c’è. Va da sé che l’unica espressione culturale con cui ingaggiare un confronto, nel tentativo di riuscire a vincerlo, per paradosso è proprio l’ignoranza. Volendola tracciare con una parabola, la flessione della ricerca linguistica all’interno delle canzoni moderne, si dovrebbe scavare un fossato, interrarsi in un bunker atomico. Indifendibile, squallida, quasi sempre sessista anche se nessuno dei Benpensanti della Domenica lo fa notare. A larghi tratti analfabeta, quasi sempre composta da una manciata tra sostantivi, aggettivi e pronomi (massimo dieci, sempre gli stessi), ampiamente intrisa di offese gratuite, nomi e marche importati da lingue straniere. Né militante né consunta, né vissuta né scaltra. Una lingua traslucida, abbandonata per eccesso di frequentazione. Una lingua al consumo, usa e getta come le carte prepagate. Una lingua fantasma, nemmeno codice di riconoscimento. Avvertimento lampeggiante, segnale di insipienza riconoscibile da tutti e da lontano. Una lingua svenduta al massimo ribasso, umiliata come se di null’altro si potesse parlare che di stronzate, perché alla gente ignorante (stando al marketing alla base della concezione di questi capolavori) bisogna rivolgersi con cose ignoranti (ecco perché una signora che storpia il nome scientifico del ceppo di un virus su una spiaggia italiana, mixata e debitamente masterizzata fa più download di Alberto Angela). E in questo deserto nessuno chiede uno sforzo di creatività, nemmeno a quelli che invece avevano colpito – o ci avevano provato – per la loro audacia. «E comunque si balla, come bolle nell’aria. E si tagga la faccia, che è riaperta la caccia. E comunque si bacia, l’italiana banana…» canta Francesco Gabbani nel Sudore ci appiccica, mentre Diodato fotografa la solitudine che ci siamo lasciasti alle spalle con «lo vedi amico arriva un’altra estate, e ormai chi ci credeva più, ché è stato duro l’inferno ma non scaldava l’inverno, hai pianto troppo questa primavera» (tratto da Un’altra estate). Non fanno meglio Ermal Meta e Bugo, con Mi manca: «E mi manca aspettare l’estate, comprare le caramelle colorate. E mi manca (mancano, sarebbe plurale) le strade in due in bici. Mi manco io, mi manchi tu. E mi manca una bella canzone (sinceramente, anche a noi!)».
*
Bene intesi, nessuno pretendeva la chiave d’interpretazione dell’umanità. Ma forse è proprio dentro la musica, nelle note più spensierate di questi testi privi di urgenza e tensione morale, che la pandemia sembra aver riposto tutte le banalità che ha succhiato infilando una cannuccia sulle nostre teste. «Blocco a volte sembro ancora triste, il testo è vero sai che mamma è fiera, fumo sopra ai sedili di un Velar, penso a quando il successo non c’era – Shiva in Auto blu – fa i soldi appena diciottenne, in qualche modo sotto quelle antenne, in quanti cambiano lo sai anche tu…», con un seguito quasi mai inferiore ai 20 milioni di follower. Che la lingua non esista più lo si capisce da gemiti, monosillabi e vomiti che ormai sono diventati testo e non pretesto, overdose di egocentrismo, autoerotismo più esasperato di quello di certi scrittori. «Lui si porta i libri di Kafka – profetizza J-Ax nella sua Bibbia estiva, quella di quest’anno si chiamava Ostia lido – ma poi studia solo ogni culo che passa». E poi la ricostruzione delle giornate tipo in cui riconoscersi tutti, non solo gli adolescenti ai quali questi pezzi sarebbero destinati. «Mi chiedi com’è passare le giornate a stare sul divano, con un caldo allucinante che mi scioglie, non dormo più la notte, ventilatore in fronte, e questa casa sembra proprio un hotel – scrive Giulia Penna in Un bacio a distanza –. Latine, il bel Paese, pizza pasta e mandolino, tu portami del vino, ché forse in questo pranzo non t’arriva manco il primo».
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Come nei decreti “Mille proroghe” in cui insieme alla manovra finanziaria finiscono anche le sanatorie sui profilattici scaduti, in questa deriva consumista sono finite umiliazioni («ay papi non mi paghi l’affitto (…) Mamma lo diceva, sei carino ma non ricco»: Giusy Ferreri ed Elettra Lamborghini, La Isla); icone di plastica («tu fra queste bambole sembri Ken, ti ho in testa come Pantene»: Baby K e Chiara Ferragni, Non mi basta più);l’ostentazione della povertà («Nelle tasche avevo nada, ero cool, non ero Prada»: Mahmood, Sfera Ebbasta e Feid, Dorado); e la nemesi, sotto forma di insofferenza verso gli eccessi di comunicazione («Te lo spacco quel telefono, oh-oh, l’ho sempre odiato il tuo lavoro, oh»: Elodie, Guaranà).
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Ferie d’Agosto.
In una memorabile scena del bellissimo film con cui Paolo Virzì ha anticipato di almeno un ventennio il funerale politico del Paese, cioè Ferie d’Agosto, Ennio Fantastichini (capo famiglia di Destra) dice a Silvio Orlando (capo delegazione di Sinistra) queste parole: «La verità è che nun ce state a capì più un cazzo manco voi, ma da mo’…». Che non solo è vero, ma fotografa alla perfezione la saturazione di un pubblico in cui chi prova a dire «no» è condannato all’emarginazione, alla solitudine, alla gogna. «Se c’è una cosa che mi fa spaventare, del mondo occidentale, è questo imperativo di rimuovere il dolore. Secondo me ci siamo troppo imborghesiti – dice Dario Brunori in Secondo me – abbiamo perso il desiderio, di sporcarci un po’ i vestiti, se canti il popolo sarai anche un cantautore, sarai anche un cantastorie, ma ogni volta ai tuoi concerti non c’è neanche un muratore».
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Certo non mancano le eccezioni, taluna musica riesce ancora a incarnare l’essenza di una missione a cui non solo i chiamati all’appello rispondono (cit. Leo Longanesi). Così come non mancano le ambizioni, le lezioni di scienza e coscienza di chi mette insieme la musica al più antico insegnamento degli umani, il sapere (penso al progetto Deproducers, lo straordinario tentativo di deprodurre, appunto, la musica attraverso l’ausilio della scienza); ma si tratta di oasi che al cospetto delle cover patinate, delle tracce inascoltabili imposte dalla tv e dalla pubblicità, dinanzi al muro di intolleranza al bello eretto soprattutto da alcune etichette musicali, non arriva alla grande platea. E non ci arriva perché non racconta una mutazione, non arriva perché non riesce a essere antidoto a tutto il peggio prodotto in questi anni, segnatamente in questi mesi.
*
A pensarci bene la pandemia non c’entra, al contrario come noi è costretta a subire questo strazio. La verità è che la cifra stilistica media, l’asticella della dignità, la percezione del gusto e l’estetica condivisa hanno perso qualsiasi ritengo, hanno rinunciato a ogni freno inibitore, così ciò che fino a venti anni fa era meno dello scarto delle bobine oggi è diventato esperimento, ricerca scientifica, derivato d’introspezione, indagine socio-artistica. E a nulla valgono gli impietosi paragoni col passato, quando provando a spiegare alle nuove generazioni la sofferenza da cui proveniamo lo si fa con una canzone di Francesco de Gregori («meno male che c’è sempre uno che canta e la tristezza ce la fa passare, se no la nostra vita sarebbe come una barchetta in mezzo al mare, dove tra la ragazza e la miniera apparentemente non c’è confine, dove la vita è un lavoro a cottimo e il cuore un cespuglio di spine», da La ragazza e la miniera), perché nessuno ha più tempo per ascoltare questi dinosauri. La missione è quella di favorirne l’estinzione, aprendo le porte di un mondo digitale, inespressivo e anaffettivo in cui la canzone – intesa come esperienza/fenomeno – riveste la stessa utilità dei prolungamenti delle unghie: umiliare la natura, nasconderne i prodigi. Come i bari fanno col talento.
Davide Grittani
* Davide Grittani (Foggia, 1970) ha pubblicato i reportage “C’era un Paese che invidiavano tutti” (Transeuropa 2011, prefazione Ettore Mo e testimonianza Dacia Maraini) e i romanzi “Rondò” (Transeuropa 1998, postfazione Giampaolo Rugarli), “E invece io” (Biblioteca del Vascello 2016, presentato al premio Strega 2017), “La rampicante” (LiberAria 2018, presentato al premio Strega 2019 e vincitore premio Città di Cattolica 2019, Nicola Zingarelli 2019, Nabokov 2019, Giovane Holden 2019, inserito nella lista dei migliori libri 2018 da “la Lettura”del Corriere della Sera). Editorialista del Corriere del Mezzogiorno, inserto del Corriere della Sera. Dirige la collana “Dispacci Italiani (Viaggi d’amore in un Paese di pazzi)” per l’editore Les Flaneurs.
L'articolo “Lui si porta i libri di Kafka ma poi studia solo ogni cu*o che passa”. Le hit dell’estate più rarefatta del secolo, ovvero: sull’analfabetismo della musica italiana (che spacciano per indagine socio-artistica) proviene da Pangea.
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Francesco Borrasso è uno scrittore delle mie parti. L'ho conosciuto che avevo 14 anni. La mia professoressa di italiano ci fece leggere uno dei suoi primi romanzi e poi organizzò un incontro con lui.
Leggere quel libro fu per me una svolta. Incredibile per me ritrovare i miei pensieri intimi non in un libro di letteratura, ma in un ragazzo più grande che era come me e abitava qui.
Inutile dirlo, presi una cotta per lui. Ma, timida e pessimista come sempre, non ebbi mai il coraggio di approcciarmi in qualche modo. Quel che ho continuato sempre a fare negli anni è stato consigliare i suoi libri a mezzo mondo (ed è anche per questo che scrivo questo post).
Una volta notò un post su Facebook in cui consigliavo i suoi libri e mi ricondivise sul suo profilo. Io al settimo cielo e oltre.
Qualche mese fa, pubblica questo post e, per quanto improbabile possa essere, niente mi vieta di immaginare che, forse, nonostante non ascolti De Gregori, se fossi stata leggermente più intraprendente o, magari, se lui mi fosse piaciuto di più, quella ragazza sarei potuta essere io.
#che invidia#mamma mia#Francesco Borrasso#sempre nel mio cuoricino#leggete i suoi libri#merita un successo spaziale#non sono di parte giuro
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L’altra Santuzza
Il culto della ninfa Igea a Palermo
Come reagiscono ai pericoli i palermitani?
Racconto spesso agli amici in visita, che per capire, o meglio carpire l’animo dei palermitani bisognerebbe guardare a due immagini, due simboli tutto sommato poco frequentati della città.
Una è un uomo, l’altra una donna.
Sono uno l’opposto dell’altra, ma entrambi incarnano lo spirito di questi luoghi.
L’uomo è rimasto più immobile nel corso dei millenni, la sua raffigurazione non è cambiata poi tanto. L’immagine della donna ha subito invece continue metamorfosi, pur restando se stessa. Anche in questo senso due poli opposti.
Diciamo subito chi è questo uomo, il Genio di Palermo.
La cui prima rappresentazione è stata rinvenuta in forma di altorilievo nella zona dell’Acquasanta. Dobbiamo prendere quindi questa forma come il modello originale da cui discendono le altre (alcuni ne contano sette fra mosaici, dipinti, sculture).
Il Genio ha alcune caratteristiche di immediata lettura.
Prima di tutto è un uomo. Un uomo barbuto ma dal corpo giovane. Poi è coronato. E infine, tratto che ci interessa di più, armeggia con un serpente. Alcuni sostengono che sia la famosa serpe allattata al seno, come dire che ‘hai voglia a far del bene in città, il popolo ti si rivolterà sempre contro’. Altri sostengono che sia un morso fatale, un po’ come il biscione dei Visconti a Milano che ingurgita un uomo intero (secondo il detto popolare addirittura un bambino). Perché a esporre le proprie paure, le si esorcizza. Qualcuno si ricorderà il famoso episodio biblico in cui Mosè per scacciare una invasione di serpenti dal suo accampamento nel deserto ne solleva uno su un bastone e a quella vista, qualunque essere strisciante batté in ritirata. Il senso è lo stesso
Allora, sappiamo che il volto maschile della città è stato trovato in un luogo con un nome significativo, l’Acquasanta. E sappiamo che adesso è esposto al porto di Palermo. Guarda il mare. Altro luogo simbolo della città, dove l’acqua è il confine, l’altro, tutto il bene e tutto il male possibile.
Sappiamo anche che le altre statue del genio hanno sempre a che fare con luoghi d’acqua, che nei suoi flutti ricorda proprio un serpente.
Il genio del Palazzo Pretorio è in corrispondenza della Fontana della Vergogna. Il genio della Fieravecchia è su una fontana. Il genio di Villa Giulia anche. E il genio del Garraffo sorge fra le due fontane del quartiere, quella della Vucciria e quella del Garraffo, dall’arabo che vorrebbe dire acqua abbondante, appunto.
Insomma il simbolo di Palermo nella sua veste maschile ci parla di una lotta con l’elemento acqua, che porta nutrimento ma che può veicolare anche malattie e morte.
E’ una specie di avviso agli utenti, appena si incontra il Genio bisognerebbe pensare: ‘qui c’è dell’acqua, state accùra a come la usate’.
Ma qual è il suo corrispettivo femminile?
Certamente le sante patrone, su cui mi soffermerò brevemente, sicuramente la Santuzza, ma, vedremo, non solo.
Oliva è legata a un pozzo sacro, oggi custodito dentro la chiesa di San Francesco di Paola.
All’acqua è già nel nome di Santa Ninfa, un antico culto delle fonti. Santa Ninfa in oltre veniva invocata per la pioggia in tempo di siccità, cosa non rara in Sicilia.
Santa Cristina, terza patrona, è protagonista di un racconto meraviglioso di ingegno medievale in quel di Bolsena, con il lago che si rifiutò di farla annegare, e le serpi (il serpente ritorna!) che le vengono a leccare i piedi a riva.
Agata, ultima Santa a far quadrato, ragiona per converso, è legata al culto del fuoco o meglio agli esorcismi contro il fuoco, e la sua cattedrale sorge di fronte al porto, luogo delel acque per eccellenza, e alla fontana dell’Anemano.
E poi, certo, c’è l’incarnazione più potente del femminile in città, la Santuzza. Anche Rosalia è legata all’acqua, ad un pozzo, nella caverna del rinvenimento miracoloso delle sue spoglie mortali, e ad un uso dell’acqua che salva, soprattutto in tempo di peste.
Ma in città, esiste un altro culto, più recente che è il perfetto contraltare del Genio di Palermo.
Quello di Igea. Igea è la dea della “salute”, questo vuol dire il Igea in greco. Igea suona alle nostre orecchie giustamente come “igiene”. Figlia del dio della medicina, Asclepio, Igea viene rappresentata mentre dà da bere a un serpente dalla sua coppa.
Ed ecco l’opposto perfetto. Mentre il maschile, il Genio si “allattarìa” con l’acqua, con il suo serpente che già lo morde al petto, Igea il petto lo rivela al serpente il quale per tutta risposta non la morde, anzi le parla e le rivela i suoi segreti. Il femminile di Palermo è questa divinità, dai molti nomi, Oliva, Ninfa, Rosalia, Igea ognuno legato ad un momento della città, ma che sempre trova il modo di trasformare un pericolo in una occasione di salvezza. E infatti Igea salva e lo fa in un modo insieme molto moderno e molto antico, con la medicina. Non è un caso che la grande Villa sul mare che porta il suo nome fosse destinata dai Florio (almeno in seconda battuta) a casa di cure, luogo in cui il mare non è un nemico ma guarisce. E qual è questo luogo? Proprio l’Acquasanta, quel lembo di terra in cui fu rinvenuto il primo genio di Palermo.
E non è un caso che Igea compaia in altorilievo anche sulla facciata di villa Noto, altra casa di cure che sorge in una zona un po’ sopraelevata dal piano di città e da sempre considerata luogo dall’acqua e dall’aria buona.
Nella metopa d’angolo di villa Noto, fra via Garibaldi e Viale Regina Margherita, ecco l’”altra Santuzza”, l’immagine allo specchio, speculare del Genio di Palermo, Igea. Colta proprio mentre da una coppa dà da bere al suo serpente.
Insomma se una parte del “palermitano” prende le cose “di petto” come fa il Genio, un’altra parte è capace di ingegno acutissimo, cavando soluzioni in situazioni insidiose, dimostrando il coraggio di chi addirittura, come Igea, disseta i serpenti dove altri se la sarebbe semplicemente battuta a gambe levate.
In questi strani tempi non ci fa certo male tornare a guardare alla storia della nostra città e ai molti modi in cui i palermitani hanno saputo resistere e superare momenti difficili.
Alberto Milazzo
Autore di romanzi, racconti, teatro.
Pubblica con Mondadori (Uomini e insetti), SEM (La morale del Centrino).
Prossimo il debutto al Teatro Libero di Palermo del suo “Aspettando Manon”.
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Torino nelle canzoni
Alcune città sono grandi dive, fotografate, adulate, citate fino alla noia. Parigi, Roma, New York. Protagoniste di innumerevoli film, di romanzi, e di canzoni. E appunto di canzoni, volevo parlare, anzi di testi. I parolieri sono spesso abili artigiani capaci di adattare parole e rime alle capricciose esigenze delle note musicali. Creatori di frasi d'effetto, di assonanze magari semplici ma immediatamente evocative all'orecchio di un ascoltatore spesso distratto. Molti testi letti senza ascolto diventano insignificanti se non infantili senza una musica di supporto. A volte, più raramente, i parolieri sono poeti e allora i loro versi vivono di vita propria, belli anche se muti. In alcuni casi i testi delle canzoni sono vere storie, brevi racconti e cronache di un tempo, di un sentimento. Io sono nato e vivo in un luogo che non è appariscente. Torino non è una star, e fino a pochi anni fa era nota solo per essere sede di una fabbrica di automobili. Poi le cose sono cambiate, negli ultimi tempi sono arrivati i turisti ed una certa notorietà internazionale. Non sono comunque tantissime le canzoni dedicate o ambientate a Torino. Tutte però sono in qualche modo significative e strettamente legate ad un ben preciso momento storico nella vita della città. Esistono naturalmente antiche ballate e canzoni in dialetto torinese, canti popolari, canti di osteria, ma in questa sede prendo in esame solo testi in Italiano.
La più antica che mi viene alla mente è “ Ciao Torino “ autori Lampo e Prato, anno 1949. A dire il vero, è leggermente controverso il fatto che il testo originale sia stato scritto in Italiano. Secondo alcune fonti era in Torinese, secondo altre fu tradotta in dialetto da quel Gipo Farassino di cui ci occuperemo tra poco. Testo estremamente semplice:
“Ciao Torino, io vado via, vado lontano a lavorare. Io non so che cosa sia, sento il cuore tremare.”
Semplice eppure rivelatore: ci fu un tempo, neppure troppo lontano, in cui anche Torino era terra di emigranti, di gente che doveva andarsene, per cercare condizioni di vita migliore.
Poi, il boom economico, il miraggio della Grande Fabbrica che offriva a tutti un posto di lavoro. Ecco “ La mia città “ del 1969 . Parole e musica di Gipo Farassino. Gipo, artista molto amato a livello locale, autore dialettale, attore, uomo politico, scrisse anche canzoni in italiano, raccolte in un album dal titolo “ Due soldi di coraggio “ Ne “La mia città “ crea un ritratto triste da Neorealismo, la città-fabbrica priva di gioia, dove gli operai in tuta blu sono soldatini in fila, quasi burattini mesti.
“Un mare di fredde ciminiere un fiume di soldatini blu un cielo scordato dalle fiabe un sole che non ti scalda mai. Questa mia città ti fa sentir nessuno ti strozza il canto in gola ti spinge ad andar via. Questa mia città che spegne le risate che sfugge a tanta gente resta la mia città “
Ma il boom è anche espansione urbana, periferie dove i prati con pecore al pascolo lasciano il posto ai palazzoni dell'edilizia speculativa. Ne “ L'auto targata Torino” del 1973, musica di Lucio Dalla parole di Roberto Roversi, un vento contestatario dal sapore leggermente populista contrappone una Torino da cartolina alla cruda realtà di quei “ Terroni “ che erano i predecessori di una lunga serie di gente venuta da “ altrove” Le facce diverse in cerca di lavoro, non sempre amate da chi è ormai immemore di un tempo in cui i poveri nel mondo si chiamavano Italiani.
“Questo luogo del cielo è chiamato Torino lunghi e grandi viali, splendidi monti di neve sul cristallo verde del Valentino illuminate tutte le sponde del Po. Mattoni su mattoni sono condannati i terroni a costruire per gli altri appartamenti da cinquanta milioni “
Alla fine la Contestazione non genera solo figli innocui. Arrivano gli anni difficili della violenza, dello scontro duro. La città è spesso un campo di battaglia, una terra di nessuno dove anche il modo di vestire, il locale dove andare a bere un caffè, diventano etichetta politica. Il cantautore torinese Enzo Maolucci, nel suo album “ Barbari e Bar “ del 1978, con un linguaggio diretto ed efficace, dipinge un'immagine allo stesso tempo realistica e beffarda di una Torino che ha un tantino perso l'aplomb, di una città moderna che non ha la statura della grande metropoli, anche se una élite forse radical-chic vorrebbe fare sfoggio di inutile snobismo. E' centrale in questo racconto la presenza di bar e caffè, luoghi di ritrovo mondano, covi dissidenti, porti per rifugiarsi lontano dalla folla.
“ Il Gran Bar è fatto apposta per fascisti stravaganti. In cremeria adesso ci trovi i comunisti più osservanti. La Gran Madre è una gran piazza, il Po è li' vicino per chi si ammazza.
Si ammazzano a Torino, sai, Torino che non è Nuova York Si ammazzano a Torino, sai, Torino di Barbari e Bar.
Dal Bar Elena esco in via Po, vado col pensiero... Pugni in tasca, sbornia triste, palle in giostra, muri sporchi di ideali messi in mostra.
Adoro andarmene in vetrina, specchiarmi cinico e beffardo, finché un'edicola sirena seduce il mio sprezzante sguardo. Il compromesso storico, l'Amerika col Kappa, convergenze parallele, la crisi del romanzo e poi...”
Ma non tutti vanno al Bar Elena. Nella banlieue, qui come a Londra, ragazzi Punk strillano arrabbiati il loro “ No future “ Loro sono “Rough” band street punk molto locale e molto molto alternativa, che nel 1982 interpreta con grinta giustamente ( Punkescamente ) sgangherata “Torino è la mia città”
“Crescer nella noia senza sapere cosa fare Crescer nella noia senza un futuro in cui sperare In un città dove non succede mai niente Torino è la mia città “
La rabbia stanca. Ancora di più la rabbia senza soluzione, la violenza fine a se stessa. Finiscono gli anni della P38, torna la voglia di normalità. Il Privato non è più Politico. Siamo alla fine del secolo e del millennio. Anno 1999, un'altra Band torinese, molto nota, questa, molto amata, Subsonica, canta una città che riesce ancora ad ispirare l'amore, ne “ Il cielo su Torino “
“Per il tuo amore che è in tutto ciò che gira intorno acquista un senso questa città e il suo movimento fatto di vite vissute piano sullo sfondo Un altro giorno un'altra ora ed un momento dentro l'aria sporca il tuo sorriso controvento il cielo su Torino sembra muoversi al tuo fianco”
La città è un organismo vivente, e come tutto ciò che vive è in continuo divenire. Gli esami non finiscono mai, come diceva Eduardo. Si allontana lo scontro armato, eppure altri scontri, forse più subdoli, incombono. Torino diventa città multi etnica, dove ci si diverte, finalmente, ma dove le fabbriche chiudono, dove si spaccia e si consuma droga, e non tutti i nuovi arrivati sono buoni cittadini. “ Tanco del Murazzo “ di Vinicio Capossela, sempre sul finire del secolo, anno 1996, descrive un Noir deve ci si fa, e ci si pesta, con Slang duro e impietoso. Ed i Murazzi, lungo fiume di bar e locali per i giovani abitanti della notte, diventano terra di nessuno, frontiera pericolosa.
“Il fiume è giallo, lento fango d'Orinoco scorre tra i fuochi, gli spacci, i mangiafuoco scende il murazzo, c'è una macchina bruciata kebab arrosto e folla a grappoli in parata le ragazze aspettano di uscire fuori per ballare e intanto provano le scarpe nuove e ridono da sole dentro casa, lei lo guarda e resta lì senza parlare fuori tutto accade anche senza di noi nel grotto spingono e si bercian Patuan l'anfe che sale, caldo a fiotti, nervi tesi Envisia serve al banco acqua minerale ondeggiano sulle ginocchia tutti uguale guarda lo specchio e vede in fondo che per occhi adesso ci ha due buchi neri e nel riflesso dell'abisso vede il pozzo che era un tempo anima sua”
Ma voglio chiudere con una nota più tenera.
“Torino sulla luna “è una canzone scritta da Giuseppe Peveri in arte Dente con Fabio Barovero, per la colonna sonora del film “La luna su Torino” di Davide Ferrario, pellicola del 2014. Con voce poetica, l'autore coglie con un guizzo vincente quella che è forse l'anima più vera di Torino:
“Linea d’orizzonte, vertici i punti piani e gli spazi paralleli, pendii abitudini inutili pressioni, altitudini inizia la fine tutte le cose si incontrano qui”
In questa città di geometrie e di grandi chiaroscuri, dove molte cose iniziarono in sordina, nel bene e nel male, per poi diffondersi ed allargarsi lontano, in questa città dove si cerca di non esagerare mai, andando spesso all'avanguardia quasi controvoglia, dove genti tanto diverse da apparire a prima vista incompatibili riescono a convivere nonostante tutto, in questa città che a volte non pare Italiana, è bello camminare, guardando ascoltando e pensando che davvero tutte le cose s'incontrano qui.
Di BRUNO BRUNI
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